DOC-1262. ROMA-ADISTA. Celebra di fronte a circa 9mila
persone la sua ultima messa in Duomo, proprio nel giorno della festa
della natività della Beata Maria Vergine, la "bela madunina" cui la
Chiesa è consacrata, il card. Carlo Maria Martini, che saluta,
dopo oltre 22 anni di episcopato, la diocesi di Milano, in
attesa di consegnare ufficialmente, il 29 settembre, il pettorale di
vescovo al suo successore, il card. Dionigi Tettamanzi. Poi
partirà definitivamente. Tra qualche settimana Martini si trasferirà
infatti nel santuario di S. Maria di Galloro, a 2 km. da Ariccia (v.
Adista, n.
41/02), presso una comunità di gesuiti. Di lì, se le condizioni
politiche lo permetteranno, spera di potersi trasferire a Gerusalemme.
"Sappia con sicurezza che la portiamo nel cuore", gli ha detto dal
pulpito mons. Giovanni Giudici, il suo vicario generale,
raccogliendo l'ovazione dei presenti, che hanno poi lungamente
applaudito il card. Martini alla fine della celebrazione.
"Amatevi gli uni e gli altri, così vivrete nella giustizia, nel
perdono e nella pace - questo il messaggio lasciato da Martini alla
folla radunatasi in Duomo -. In un mondo gravido di conflitti e di
minacce di nuovi assurdi conflitti, il nostro maggiore contributo alla
pace nascerà da un cuore che anzitutto vive in se stesso il perdono e
la pace".
Riportiamo, di seguito, una rassegna di commenti.
Corriere della Sera - 7 settembre 2002
MARTINI, CARDINALE SENTINELLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
Achille Silvestrini
Domani l'arcivescovo Carlo Maria
Martini (75 anni) officerà in Duomo alle 11 l'ultima messa da pastore
della diocesi di Milano. Al temine della celebrazione il cardinale si
congederà dalle autorità cittadine. A Martini succederà, com'è noto,
il cardinale Dionigi Tettamanzi (68 anni), ora arcivescovo di Genova,
che prenderà possesso della diocesi il 14 settembre e farà il suo
ingresso a Milano domenica 29. La sentinella che ha vegliato sulla
città, l'episcopato del cardinal Martini, dopo ventidue anni consegna
a Milano e al mondo un grande messaggio di fede, tutto scavato dal
Vangelo, per la vita cristiana, e per la Chiesa. Basta scorrere
l'indice delle sue Lettere Pastorali, dal 1980 al 2002, fresche,
incalzanti, innovative, compatte come pietre di un edificio spirituale
in progressiva crescita, per valutare l'opera di una straordinaria
seminagione pastorale.
Nello stesso tempo questo magistero si è rivelato un grande
insegnamento anche per la vita civile, fatto scaturire dalle vicende
della città e dell'Italia in tutte le stagioni, incluse quelle del
terrorismo, di Tangentopoli, della ricerca di identità politica.
Sembra un paradosso, eppure il rivolgersi di Martini alla società
civile su temi "laici" non è stato "un di più" da intellettuale e uomo
di cultura, ma una risposta che egli sentiva che la Parola di Dio - di
cui è altissimo studioso e umile discepolo - doveva dare agli
interrogativi degli uomini, del pensiero e della scienza, del lavoro,
della giustizia, dell'economia, degli affari.
Questa missione richiama il modello di papa Gregorio Magno, che al
cadere del sesto secolo, nello scontrarsi di due epoche, tra lo
sfaldarsi del potere romano e il premere dei nuovi popoli, intese la
sua funzione di vescovo come lettura e spiegazione della Scrittura
perché il popolo potesse recuperare le ragioni della fede, e da esse
trarre risposte alla crisi sociale.
Leggendo Ezechiele, Gregorio si immedesimava nella vocazione del
profeta al quale Dio aveva detto: "Figlio dell'uomo, ti ho mandato
come sentinella alla casa di Israele" (3,16). La sentinella è posta in
vedetta a cogliere il dolore della gente e a portare nella voce la
Parola di Dio, per allargare gli spazi nell'animo di coloro che
versano nell'angustia e da soli non saprebbero ricuperare coraggio e
speranza.
Qui c'è tutto il magistero del cardinal Martini: la fedeltà alla
Parola, l'occhio vigilante che discerne le insorgenti realtà che
premono, la franchezza per indicare i percorsi di pensiero e le
prospettive di azione che la Parola di Dio ispira e sollecita. Chiesa
e società sono state coinvolte e intrecciate in una sola vicenda come
mostra la duplice valenza di molte iniziative del Cardinale: la Scuola
della Parola per i giovani, l'insegnamento sapienziale ai laici, la
cattedra dei non credenti per chi cerca la fede, le riflessioni nelle
vigilie annuali di sant'Ambrogio sulla società, la vita internazionale
e la pace. Ad ogni problema, e particolarmente alle ragioni etiche
dello stato sociale, ai rapporti tra giustizia ed economia, alla
qualità della vita, alla funzione redentiva della giustizia penale,
alla solidarietà privata e pubblica, al primato della politica come
frutto di una coscienza condivisa, egli ha saputo guardare ogni volta
con occhi critici e disincantati ma sempre benevoli e creativi per
individuare gli spazi idonei a far emergere la libertà e la dignità
dell'uomo.
Accanto all'annuncio della Parola - con la franchezza profetica e la
compassione che ascolta - già Gregorio aveva appreso da Ezechiele la
necessità di stare in silenzio a sentire le sofferenze del popolo. Un
esempio è quello che Martini ha dato ascoltando, non una sola volta,
la "cascata di interrogativi" ed i "sospiri di desiderio" dei
carcerati. È da questo suo assumere le sofferenze dell'uomo nelle
varie categorie e situazioni che forse si è fatto più forte il
desiderio di andare a Gerusalemme, la città che, come egli dice
citando un midrash rabbinico, ha ricevuto dal Creatore, "accanto
a nove porzioni di bellezza e di scienza, altrettante nove porzioni di
dolore e di sofferenza".
Gerusalemme, a cui ha sempre anelato di andare Ignazio di Loyola, è il
luogo dove uno ritrova l'orma dei piedi affaticati e doloranti di
Cristo, il crocifisso che si è caricato dei peccati e delle sofferenze
dell'umanità per dissolverli e annullarli nella risurrezione.
Con carattere schivo e rispettoso, Martini ha privilegiato nella
formazione i tempi lunghi, aspirando a un cristianesimo adulto,
consapevole, pensante e responsabile. Una fede di questo tipo non
poteva essere che dialogica. Perché egli ha mostrato di essere
convinto che, in sostanza, è Dio che conduce i cammini dell'uomo, ed
educa alla libertà vera. E il rapporto che la Chiesa stabilisce con
gli uomini deve essere tale da servire quell'azione di Dio,
facendosene attraversare essa stessa le proprie viscere: farsi educare
per educare, farsi liberare per liberare, ascoltare per annunciare.
Alla fine resta l'assoluto ignaziano del "soli Deo gloria". "Il
primato di Dio rispetto a ogni iniziativa o attività umana, il primato
di Gesù sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello della
persona sulle strutture, quello dell'interiorità sul fare esteriore.
Il primato dell'essere sull'avere" (così aveva scritto nella lettera
pastorale del 1995-96 Ripartiamo da Dio). Gli anni del
cardinale Martini sono una traccia su cui camminare ancora, uno stile
di Pastore che annunzia la speranza, che dà voce alla Parola, che
sente il carico profetico di proporre nella vita, nelle scelte, nelle
politiche, la fedeltà al Vangelo (è la serietà del cristianesimo).
Sono l'immagine di chi si lascia attraversare dal dolore del mondo,
dalle domande e dai dubbi dell'uomo contemporaneo al punto da
provocare già in se stesso la fraternità per essere partecipe, come
Teresina di Lisieux, della "mensa degli increduli". Affinché tutto
possa ricondurci a Colui che ha inviato il Pastore al suo popolo
perché sia sentinella nell'alba di nuovi tempi.
l'Unità - 8 settembre 2002
IL CARDINALE CHE NON SI È PIEGATO ALLA LEGA
Roberto Monteforte
"A chi domanda al cardinale Martini
cosa farebbe se un giorno ci fosse la Padania separata, il cardinale
risponde "Rimarrei al mio posto come Schuster è rimasto al suo posto
quando ha dovuto reggere la diocesi praticamente separata dal resto
d'Italia nel '43, cercando di tenere saldi valori di ogni tipo: carità,
solidarietà, onestà, di relazione con il resto del mondo"". Lo
racconta il giornalista Marco Garzonio ne Il Cardinale (ed.
Mondadori), il libro che ricostruisce i 22 anni trascorsi dal
cardinale Carlo Maria Martini alla guida della diocesi di Milano. Già
questa risposta è indicativa della distanza esistente tra il cardinale
e la Lega di Bossi. Perché sono agli antipodi il modello di società
indicato dalla Lega con il suo bagaglio di xenofobia e di egoismo
sociale e quanto ha proposto alla diocesi ambrosiana il suo
arcivescovo.
Sin dal suo insediamento, con il rigore dell'uomo di studi, Martini ha
letto in profondità la società, ha ricercato il dialogo, ha indicato i
punti di crisi. Economia e solidarietà, politica ed etica sono i
termini della riflessione che ha proposto a tutta la società civile.
Già nel 1984 definisce la "corruzione" nuova peste sociale, e
indica nel degrado della politica, nella partitocrazia e
nell'affarismo i maggiori pericoli per le sorti della città e del
Paese. Richiama tutti alla responsabilità personale e dà voce alla
domanda "degli ultimi". Ha seminato speranza, ha testimoniato
solidarietà e accoglienza, spirito di pace e di dialogo tra le culture
e le religioni. Senza dubbio il suo insegnamento e il suo esempio
morale sono stati un argine importante al clima di intolleranza
alimentato dal Carroccio. Tanto più quando questi atteggiamenti
venivano giustificati come "difesa della cultura occidentale" o "della
religione cattolica". Proprio quando montava la polemica leghista e di
An contro la richiesta di un ampliamento della moschea di via Meda
(era l'ottobre 2000) - ricorda Garzonio - il cardinale Martini ha
lanciato il suo appello alla città "per la pace e per la convivenza
tra religioni diverse", invitando tutti "a superare la paura dello
straniero e per l'identità messa in pericolo dall'immigrazione". Una
risposta indiretta, ma ferma alla campagna leghista. Già nel 1982 pone
il problema dell'accoglienza degli stranieri, richiama l'esigenza di "adeguate
strutture di protezione, che garantiscano loro un legittimo rapporto
di lavoro".
La polemica con il Carroccio è stata anche diretta. Nel settembre 1992
dalla Lega chiedono le sue dimissioni. La giovane parlamentare Irene
Pivetti lo accusa di "presunta contiguità con uomini e partiti di
Tangentopoli". Annuncia raccolte di firme e dossier contro il
cardinale. Poi un anno dopo "torna a Canossa", con una lettera gli
chiede un incontro. Garzonio ricostruisce questi avvenimenti. "In
ragione della fede comune" scrive la Pivetti "si possano far
comprendere e rispettare anche le differenti scelte politiche". Ma
l'arcivescovo esige pubbliche scuse e ribadisce cosa comporti quella
fede comune invocata. Parla di un impegno preciso "in opere e
propositi di fattiva solidarietà, attenzione agli emarginati, agli
stranieri, sincero desiderio del bene comune della nazione, rifiuto di
tutte quelle forme che mettono in pericolo l'osservanza delle leggi e
la stabile convivenza civile".
Certo - sottolinea Garzonio - nello scambio epistolare "conferma la
grande attenzione del mondo cattolico ufficiale e ufficioso riguardo
ai rapporti con la Lega", ma serve pure "a ribadire la natura e
l'entità dei "paletti" che un vescovo come Martini pone a qualunque
movimento politico a salvaguardia dei valori per i quali la Chiesa si
impegna".
Nella sua ricostruzione l'autore evidenzia come qualche mese prima del
settembre 1992 l'arcivescovo si fosse espresso contro l'ipotesi di
elezioni comunali anticipate chieste dal movimento di Bossi. La
polemica continua. Nel 1990 il cardinale Martini critica il referendum
contro 1a legge Martelli sull'immigrazione voluto dal Carroccio.
Nella primavera del 1993 al ballottaggio per l'elezione a sindaco
della città di Milano, il cardinale non prende posizione tra il
leghista Marco Formentini e il rappresentante del centrosinistra Nando
Della Chiesa, ma indica i valori cui la città deve fare riferimento.
Chiede "passione per il bene comune, la cura per le persone in
difficoltà", indica come priorità "il lavoro, la famiglia, salute,
condizioni di progresso civile ed economico che toccano in particolare
le categorie più deboli".
Nel 1995 il leader leghista accelera il suo programma di distacco da
Roma e parla apertamente di secessione, proclama la "Padania libera" e
il 7 giugno 1995 insedia a Mantova il "Parlamento padano". Sono scelte
che preoccupano la Chiesa ambrosiana. La risposta dell'arcivescovo è
affidata ad un documento redatto dalla commissione diocesana "Giustizia
e Pace" dal titolo emblematico: "Autonomie regionali e federalismo
solidale", fortemente critico verso la "rivoluzione secessionista"
indicata da Bossi, e alla lettera pastorale Ripartiamo da Dio.
Nel settembre 1996 il leader del Carroccio organizza la prova di forza:
la grande catena umana lungo il Po e a Venezia proclama la "Repubblica
Padana". Le preoccupazioni sono diffuse. Alla vigilia di questa
manifestazione Martini esprime forse nel modo più diretto le sue
critiche alla Lega. L'occasione è la presentazione della lettera
Parlo al tuo cuore. Garzonio ripropone l'intervento
dell'arcivescovo. "Ammonisce Bossi (senza nominarlo) a smetterla di
parlare di secessione "se gli sta davvero a cuore l'autonomia", a meno
che "non copra il vuoto di veri progetti ricorrendo a ricette, formule
magiche, slogan"". Il cardinale invita a rifiutare "ogni forma di
demagogia e di populismo", richiama tutti alla "responsabilità",
all'obbligo di precedere, calcolare e di rispondere, moralmente e
politicamente alle conseguenze dei propri atti e delle proprie parole".
Sulla secessione il giudizio è netto: "Non possono essere accettati
modelli culturali o istituzionali che producono o sanzionano
l'esclusione di gruppi sociali o di aree territoriali". Chiede riforme
istituzionali immediate alla classe politica. Richiama l'esigenza di
un "federalismo solidale". A rischio è il futuro. Ora si apre un nuovo
capitolo. Lo scriverà il nuovo arcivescovo della città, il cardinale
Dionigi Tettamanzi.
l'Unità - 9 settembre 2002
VENT'ANNI DI CARITÀ E DI CIVILTÀ
di Oreste PivettaLa prima visita
pastorale che il cardinal Martini volle compiere a Milano fu al
carcere di san Vittore. Era il novembre del 1981. Entrò e parlò ai
detenuti. E raccontò che diventando vescovo l'anno prima per
raggiungere la sua nuova sede passò davanti a quelle mura, alle
torrette dove sostavano le guardie in vigilanza, alzò la mano e
benedisse. Poche settimane dopo, molti detenuti sarebbero saliti sui
tetti, avrebbero incendiato e distrutto. Una rivolta era scoppiata,
come altre, forse più violenta.
La città più sensibile si accorse che nel suo cuore viveva una
tragedia. "Il vescovo - avrebbe detto Martini - è come un pastore che
deve andare in giro a cercare le proprie pecore. Non deve preoccuparsi
di quelle che sono tranquille, che non hanno problemi: deve
preoccuparsi soprattutto di quelle che sono in sofferenza".
La visita pastorale di una diocesi ha questa ragione: conoscere.
Quella di Martini cominciò dal carcere. "Uno dei luoghi a me più
cari". Ritornerà varie volte, anche in quello stesso mese di novembre.
Marco Garzonio, nel bel libro che ha dedicato all'episcopato di Carlo
Maria Martini (pubblicato da Mondadori), ricorda quanto il cardinale
ami il tema della "sentinella" biblica, che "lo fa sentire in sintonia
con Giuseppe Dossetti".
Dossetti commemorò una decina di anni fa (eravamo nel 1994 al-l'indomani
della prima vittoria elettorale di Berlusconi) un altro "milanese",
Giuseppe Lazzati, che fu rettore dell'Università Cattolica, evocando
proprio la sentinella biblica e quella domanda ripetuta, "Sentinella,
quanto resta della notte?", e la risposta, "se volete domandare,
domandate,/ viene il mattino, poi anche la notte;/ convertitevi,
venite". Dove, spiega Dossetti, non v'è rimpianto, non v'è alcun
pensiero rivolto al giorno precedente. La sentinella e chi lo
interpella guardano il presente e si preparano al giorno successivo.
Il realismo è la loro strada: considerare lo stato delle cose, per
preparare il domani. San Vittore: è lì il presente milanese di Martini,
appena nominato da papa Wojtyla, tra la coincidenza di un passaggio e
l'avvertimento della cronaca. Martini vive la città nella sua
interezza, nei suoi conflitti, nelle sue contraddizioni: "Questa
benedetta, maledetta città". La città degli uomini e la città delle
macchine, delle strade, delle case, del cemento, come scriverà in uno
dei suoi interventi per la "Cattedra dei credenti" nel 1995: "(…)
vedevo le case venirmi come addosso, una dopo l'altra, e nelle case
gli appartamenti, con dentro tanta gente che si indovinava dietro le
tendine, dietro le luci delle finestre; e in ogni casa tanti pesi da
portare: litigi, frustrazioni, problemi, malattie, morti". Un'umanità
anch'essa reclusa tra le mura di una casa o di una fabbrica e tra le
difficoltà della vita: "Mi sentivo come aggravato, soffocato da quella
moltitudine di caseggiati, di persone, di problemi; e sentivo
riaffiorare l'angoscia per i morti dei terrorismo, per tutti gli
uccisi dalla criminalità e dalla droga, per i disperati, per tutti
quelli che quella notte erano stanchi di vivere ... ".
Il secondo incontro di Martini fu con il lavoro, nella tradizione dei
suoi predecessori, Montini e Giovanni Colombo (la sua messa di Natale
nel 1975 alla Innocenti di Lambrate, occupata, contro lo
smantellamento). A Martini capitò in sorte la città della più profonda
trasformazione del dopoguerra, la città operaia che perdeva brano dopo
brano le sue fabbriche e soprattutto smarriva la sua cultura, la sua
forza, la sua politica e insieme i suoi valori, una città impaurita,
che non si era lasciata alle spalle la strage di piazza Fontana, le
altre morti, i cupi giorni del terrorismo: se l'uomo è fatto a
immagine di Dio, anche il lavoro dell'uomo è fatto a immagine del
lavoro di Dio. Di fronte a quella notte, Martini invita a guardare e a
esprimere responsabilità. Secondo le facoltà della Chiesa: "per questo
è necessario che ai licenziamenti già in atto e ai prossimi che
annunciano con amara certezza, si risponda con un movimento corale di
solidarietà". Dopo San Vittore, il vescovo di Milano visiterà le
fabbriche. Qualche volta troverà persino i cancelli chiusi (alla Gte
di Cassina de' Pecchi). Sempre parlerà agli operai e l'ascolteranno
credenti e non credenti, come in un primo maggio del 1982 a Sesto San
Giovanni, la Stalingrado d'Italia, la città rossa e operaia: "non ci
estraniamo dalla grande realtà del lavoro, ma intendiamo collocarci al
centro di essa come credenti. Fede e carità ci legano al servizio di
ogni nostro fratello". Solidarietà e senso dell'uguaglianza dovevano
riflettersi nella considerazione cristiana del lavoro. Martini non
abbandona questi riferimenti. Si alza ancora e vent'anni dopo ripete,
in un altro Primo Maggio: "Siamo preoccupati di una nuova situazione
che conduce a modelli di società che non convincono, per il liberismo
che aumenta la povertà e mette ai margini le persone meno capaci di
reggere le esigenze del mercato".
Il vescovo sa un'altra volta vedere la città nella verità della sua
condizione. Non ne vive le illusioni. Sanziona i nuovi costumi, è
forte nella denuncia di tangentopoli. Scopre la fine di una "capitale
morale" di fronte alla vacua fantasia di una "città da bere" e più
ancora quel disegno, quella trama di corruzione e di scandali, di
collusioni tra mafia e potere politico, nella mancanza di punti di
riferimento e l'esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e
di un'etica conseguente, rimproverandoli, ovviamente, in primo luogo
ai cattolici. I quali, in vario modo, reagiranno. Dei corrotti di
Tangentopoli, Martini dirà che "la colpa maggiore di questi è di
carattere morale, una gravissima lesione del tessuto della società;
avere cioè instaurato un processo in cui una certa immoralità era
ritenuta quasi necessaria, una parte del processo sociale. Ciò ha
comportato il venir meno dell'autorevolezza di alcune istituzioni. Un
danno grave perché la società si fonda sulla fiducia". Martini è stato
a Milano la sentinella vigile che non illude ma sa, paziente,
costruire la speranza del futuro, vicino dunque alle cose della città,
ai suoi drammi e alle sue fortune (più le prime che le seconde in
questo ventennio di decadenza).Una delle ultime volte fu in Duomo, per
benedire i morti di Linate, la sciagura aerea. Davanti alla folla di
quel lutto, pianse i morti e richiamò la responsabilità dei vivi. Mi
pare che non abbia salutato Berlusconi. Però il cardinale, così
prossimo, nel senso del "farsi prossimo" cristiano, alla città, non è
stato amato da tutta la città e per giunta da tutti i cattolici. Non
gli fu risparmiata la scomunica della fervente cattolica e allora
fervente leghista Irene Pivetti, che nel 1992 ne chiese
l'allontanamento e promosse addirittura contro di lui una raccolta di
firme. L'accusa era: "coinvolgersi sempre più nella politica, anche
azzardandosi in frequentazioni a rischio". La fervente Irene Pivetti
poi ritrasse. Ma la consulta cattolica dei lumbard lo accuserà di "protestantizzazione"
e a Bossi non piacerà mai un vescovo, che interrogato sull'ipotesi di
una Padania indipendente, risponderà: "Rimarrei al mio posto, come
rimase al suo posto Schuster quando dovette reggere una diocesi
separata dal resto d'Italia". Al tempo, insomma, della Repubblica di
Salò. Probabilmente il cardinale milanese non sarà piaciuto in questi
anni neppure al cattolicissimo figlio di Comunione e Liberazione,
Roberto Formigoni. L'intervento sociale della Chiesa di Martini (attraverso
ad esempio la Caritas condotta da don Colmegna) non prevede le
privatizzazioni sotto il segno della concorrenza (di nuovo quella
specie di "liberismo") del governatore lombardo e di tanti altri
centro destra cittadini o regionali, persino nazionali. "Nessuno
poteva prevedere il modo con cui si sarebbe sviluppato il fenomeno di
degrado dei partiti", disse una volta Martini a proposito dei successi
elettorali di Berlusconi.
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