ADISTA n°68 del 23 settembre 2002


 

 

CARITÀ, CIVILTÀ, GIUSTIZIA: I DONI DEL CARDINAL MARTINI A MILANO

DOC-1262. ROMA-ADISTA. Celebra di fronte a circa 9mila persone la sua ultima messa in Duomo, proprio nel giorno della festa della natività della Beata Maria Vergine, la "bela madunina" cui la Chiesa è consacrata, il card. Carlo Maria Martini, che saluta, dopo oltre 22 anni di episcopato, la diocesi di Milano, in attesa di consegnare ufficialmente, il 29 settembre, il pettorale di vescovo al suo successore, il card. Dionigi Tettamanzi. Poi partirà definitivamente. Tra qualche settimana Martini si trasferirà infatti nel santuario di S. Maria di Galloro, a 2 km. da Ariccia (v. Adista, n. 41/02), presso una comunità di gesuiti. Di lì, se le condizioni politiche lo permetteranno, spera di potersi trasferire a Gerusalemme. "Sappia con sicurezza che la portiamo nel cuore", gli ha detto dal pulpito mons. Giovanni Giudici, il suo vicario generale, raccogliendo l'ovazione dei presenti, che hanno poi lungamente applaudito il card. Martini alla fine della celebrazione.
"Amatevi gli uni e gli altri, così vivrete nella giustizia, nel perdono e nella pace - questo il messaggio lasciato da Martini alla folla radunatasi in Duomo -. In un mondo gravido di conflitti e di minacce di nuovi assurdi conflitti, il nostro maggiore contributo alla pace nascerà da un cuore che anzitutto vive in se stesso il perdono e la pace".
Riportiamo, di seguito, una rassegna di commenti.


Corriere della Sera - 7 settembre 2002
MARTINI, CARDINALE SENTINELLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
Achille Silvestrini

Domani l'arcivescovo Carlo Maria Martini (75 anni) officerà in Duomo alle 11 l'ultima messa da pastore della diocesi di Milano. Al temine della celebrazione il cardinale si congederà dalle autorità cittadine. A Martini succederà, com'è noto, il cardinale Dionigi Tettamanzi (68 anni), ora arcivescovo di Genova, che prenderà possesso della diocesi il 14 settembre e farà il suo ingresso a Milano domenica 29. La sentinella che ha vegliato sulla città, l'episcopato del cardinal Martini, dopo ventidue anni consegna a Milano e al mondo un grande messaggio di fede, tutto scavato dal Vangelo, per la vita cristiana, e per la Chiesa. Basta scorrere l'indice delle sue Lettere Pastorali, dal 1980 al 2002, fresche, incalzanti, innovative, compatte come pietre di un edificio spirituale in progressiva crescita, per valutare l'opera di una straordinaria seminagione pastorale.
Nello stesso tempo questo magistero si è rivelato un grande insegnamento anche per la vita civile, fatto scaturire dalle vicende della città e dell'Italia in tutte le stagioni, incluse quelle del terrorismo, di Tangentopoli, della ricerca di identità politica. Sembra un paradosso, eppure il rivolgersi di Martini alla società civile su temi "laici" non è stato "un di più" da intellettuale e uomo di cultura, ma una risposta che egli sentiva che la Parola di Dio - di cui è altissimo studioso e umile discepolo - doveva dare agli interrogativi degli uomini, del pensiero e della scienza, del lavoro, della giustizia, dell'economia, degli affari.
Questa missione richiama il modello di papa Gregorio Magno, che al cadere del sesto secolo, nello scontrarsi di due epoche, tra lo sfaldarsi del potere romano e il premere dei nuovi popoli, intese la sua funzione di vescovo come lettura e spiegazione della Scrittura perché il popolo potesse recuperare le ragioni della fede, e da esse trarre risposte alla crisi sociale.
Leggendo Ezechiele, Gregorio si immedesimava nella vocazione del profeta al quale Dio aveva detto: "Figlio dell'uomo, ti ho mandato come sentinella alla casa di Israele" (3,16). La sentinella è posta in vedetta a cogliere il dolore della gente e a portare nella voce la Parola di Dio, per allargare gli spazi nell'animo di coloro che versano nell'angustia e da soli non saprebbero ricuperare coraggio e speranza.
Qui c'è tutto il magistero del cardinal Martini: la fedeltà alla Parola, l'occhio vigilante che discerne le insorgenti realtà che premono, la franchezza per indicare i percorsi di pensiero e le prospettive di azione che la Parola di Dio ispira e sollecita. Chiesa e società sono state coinvolte e intrecciate in una sola vicenda come mostra la duplice valenza di molte iniziative del Cardinale: la Scuola della Parola per i giovani, l'insegnamento sapienziale ai laici, la cattedra dei non credenti per chi cerca la fede, le riflessioni nelle vigilie annuali di sant'Ambrogio sulla società, la vita internazionale e la pace. Ad ogni problema, e particolarmente alle ragioni etiche dello stato sociale, ai rapporti tra giustizia ed economia, alla qualità della vita, alla funzione redentiva della giustizia penale, alla solidarietà privata e pubblica, al primato della politica come frutto di una coscienza condivisa, egli ha saputo guardare ogni volta con occhi critici e disincantati ma sempre benevoli e creativi per individuare gli spazi idonei a far emergere la libertà e la dignità dell'uomo.
Accanto all'annuncio della Parola - con la franchezza profetica e la compassione che ascolta - già Gregorio aveva appreso da Ezechiele la necessità di stare in silenzio a sentire le sofferenze del popolo. Un esempio è quello che Martini ha dato ascoltando, non una sola volta, la "cascata di interrogativi" ed i "sospiri di desiderio" dei carcerati. È da questo suo assumere le sofferenze dell'uomo nelle varie categorie e situazioni che forse si è fatto più forte il desiderio di andare a Gerusalemme, la città che, come egli dice citando un midrash rabbinico, ha ricevuto dal Creatore, "accanto a nove porzioni di bellezza e di scienza, altrettante nove porzioni di dolore e di sofferenza".
Gerusalemme, a cui ha sempre anelato di andare Ignazio di Loyola, è il luogo dove uno ritrova l'orma dei piedi affaticati e doloranti di Cristo, il crocifisso che si è caricato dei peccati e delle sofferenze dell'umanità per dissolverli e annullarli nella risurrezione.
Con carattere schivo e rispettoso, Martini ha privilegiato nella formazione i tempi lunghi, aspirando a un cristianesimo adulto, consapevole, pensante e responsabile. Una fede di questo tipo non poteva essere che dialogica. Perché egli ha mostrato di essere convinto che, in sostanza, è Dio che conduce i cammini dell'uomo, ed educa alla libertà vera. E il rapporto che la Chiesa stabilisce con gli uomini deve essere tale da servire quell'azione di Dio, facendosene attraversare essa stessa le proprie viscere: farsi educare per educare, farsi liberare per liberare, ascoltare per annunciare. Alla fine resta l'assoluto ignaziano del "soli Deo gloria". "Il primato di Dio rispetto a ogni iniziativa o attività umana, il primato di Gesù sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello della persona sulle strutture, quello dell'interiorità sul fare esteriore. Il primato dell'essere sull'avere" (così aveva scritto nella lettera pastorale del 1995-96 Ripartiamo da Dio). Gli anni del cardinale Martini sono una traccia su cui camminare ancora, uno stile di Pastore che annunzia la speranza, che dà voce alla Parola, che sente il carico profetico di proporre nella vita, nelle scelte, nelle politiche, la fedeltà al Vangelo (è la serietà del cristianesimo). Sono l'immagine di chi si lascia attraversare dal dolore del mondo, dalle domande e dai dubbi dell'uomo contemporaneo al punto da provocare già in se stesso la fraternità per essere partecipe, come Teresina di Lisieux, della "mensa degli increduli". Affinché tutto possa ricondurci a Colui che ha inviato il Pastore al suo popolo perché sia sentinella nell'alba di nuovi tempi.


l'Unità - 8 settembre 2002

IL CARDINALE CHE NON SI È PIEGATO ALLA LEGA
Roberto Monteforte

"A chi domanda al cardinale Martini cosa farebbe se un giorno ci fosse la Padania separata, il cardinale risponde "Rimarrei al mio posto come Schuster è rimasto al suo posto quando ha dovuto reggere la diocesi praticamente separata dal resto d'Italia nel '43, cercando di tenere saldi valori di ogni tipo: carità, solidarietà, onestà, di relazione con il resto del mondo"". Lo racconta il giornalista Marco Garzonio ne Il Cardinale (ed. Mondadori), il libro che ricostruisce i 22 anni trascorsi dal cardinale Carlo Maria Martini alla guida della diocesi di Milano. Già questa risposta è indicativa della distanza esistente tra il cardinale e la Lega di Bossi. Perché sono agli antipodi il modello di società indicato dalla Lega con il suo bagaglio di xenofobia e di egoismo sociale e quanto ha proposto alla diocesi ambrosiana il suo arcivescovo.
Sin dal suo insediamento, con il rigore dell'uomo di studi, Martini ha letto in profondità la società, ha ricercato il dialogo, ha indicato i punti di crisi. Economia e solidarietà, politica ed etica sono i termini della riflessione che ha proposto a tutta la società civile. Già nel 1984 definisce la "corruzione" nuova peste sociale, e indica nel degrado della politica, nella partitocrazia e nell'affarismo i maggiori pericoli per le sorti della città e del Paese. Richiama tutti alla responsabilità personale e dà voce alla domanda "degli ultimi". Ha seminato speranza, ha testimoniato solidarietà e accoglienza, spirito di pace e di dialogo tra le culture e le religioni. Senza dubbio il suo insegnamento e il suo esempio morale sono stati un argine importante al clima di intolleranza alimentato dal Carroccio. Tanto più quando questi atteggiamenti venivano giustificati come "difesa della cultura occidentale" o "della religione cattolica". Proprio quando montava la polemica leghista e di An contro la richiesta di un ampliamento della moschea di via Meda (era l'ottobre 2000) - ricorda Garzonio - il cardinale Martini ha lanciato il suo appello alla città "per la pace e per la convivenza tra religioni diverse", invitando tutti "a superare la paura dello straniero e per l'identità messa in pericolo dall'immigrazione". Una risposta indiretta, ma ferma alla campagna leghista. Già nel 1982 pone il problema dell'accoglienza degli stranieri, richiama l'esigenza di "adeguate strutture di protezione, che garantiscano loro un legittimo rapporto di lavoro".
La polemica con il Carroccio è stata anche diretta. Nel settembre 1992 dalla Lega chiedono le sue dimissioni. La giovane parlamentare Irene Pivetti lo accusa di "presunta contiguità con uomini e partiti di Tangentopoli". Annuncia raccolte di firme e dossier contro il cardinale. Poi un anno dopo "torna a Canossa", con una lettera gli chiede un incontro. Garzonio ricostruisce questi avvenimenti. "In ragione della fede comune" scrive la Pivetti "si possano far comprendere e rispettare anche le differenti scelte politiche". Ma l'arcivescovo esige pubbliche scuse e ribadisce cosa comporti quella fede comune invocata. Parla di un impegno preciso "in opere e propositi di fattiva solidarietà, attenzione agli emarginati, agli stranieri, sincero desiderio del bene comune della nazione, rifiuto di tutte quelle forme che mettono in pericolo l'osservanza delle leggi e la stabile convivenza civile".
Certo - sottolinea Garzonio - nello scambio epistolare "conferma la grande attenzione del mondo cattolico ufficiale e ufficioso riguardo ai rapporti con la Lega", ma serve pure "a ribadire la natura e l'entità dei "paletti" che un vescovo come Martini pone a qualunque movimento politico a salvaguardia dei valori per i quali la Chiesa si impegna".
Nella sua ricostruzione l'autore evidenzia come qualche mese prima del settembre 1992 l'arcivescovo si fosse espresso contro l'ipotesi di elezioni comunali anticipate chieste dal movimento di Bossi. La polemica continua. Nel 1990 il cardinale Martini critica il referendum contro 1a legge Martelli sull'immigrazione voluto dal Carroccio.
Nella primavera del 1993 al ballottaggio per l'elezione a sindaco della città di Milano, il cardinale non prende posizione tra il leghista Marco Formentini e il rappresentante del centrosinistra Nando Della Chiesa, ma indica i valori cui la città deve fare riferimento. Chiede "passione per il bene comune, la cura per le persone in difficoltà", indica come priorità "il lavoro, la famiglia, salute, condizioni di progresso civile ed economico che toccano in particolare le categorie più deboli".
Nel 1995 il leader leghista accelera il suo programma di distacco da Roma e parla apertamente di secessione, proclama la "Padania libera" e il 7 giugno 1995 insedia a Mantova il "Parlamento padano". Sono scelte che preoccupano la Chiesa ambrosiana. La risposta dell'arcivescovo è affidata ad un documento redatto dalla commissione diocesana "Giustizia e Pace" dal titolo emblematico: "Autonomie regionali e federalismo solidale", fortemente critico verso la "rivoluzione secessionista" indicata da Bossi, e alla lettera pastorale Ripartiamo da Dio.
Nel settembre 1996 il leader del Carroccio organizza la prova di forza: la grande catena umana lungo il Po e a Venezia proclama la "Repubblica Padana". Le preoccupazioni sono diffuse. Alla vigilia di questa manifestazione Martini esprime forse nel modo più diretto le sue critiche alla Lega. L'occasione è la presentazione della lettera Parlo al tuo cuore. Garzonio ripropone l'intervento dell'arcivescovo. "Ammonisce Bossi (senza nominarlo) a smetterla di parlare di secessione "se gli sta davvero a cuore l'autonomia", a meno che "non copra il vuoto di veri progetti ricorrendo a ricette, formule magiche, slogan"". Il cardinale invita a rifiutare "ogni forma di demagogia e di populismo", richiama tutti alla "responsabilità", all'obbligo di precedere, calcolare e di rispondere, moralmente e politicamente alle conseguenze dei propri atti e delle proprie parole". Sulla secessione il giudizio è netto: "Non possono essere accettati modelli culturali o istituzionali che producono o sanzionano l'esclusione di gruppi sociali o di aree territoriali". Chiede riforme istituzionali immediate alla classe politica. Richiama l'esigenza di un "federalismo solidale". A rischio è il futuro. Ora si apre un nuovo capitolo. Lo scriverà il nuovo arcivescovo della città, il cardinale Dionigi Tettamanzi.


l'Unità - 9 settembre 2002

VENT'ANNI DI CARITÀ E DI CIVILTÀ

di Oreste PivettaLa prima visita pastorale che il cardinal Martini volle compiere a Milano fu al carcere di san Vittore. Era il novembre del 1981. Entrò e parlò ai detenuti. E raccontò che diventando vescovo l'anno prima per raggiungere la sua nuova sede passò davanti a quelle mura, alle torrette dove sostavano le guardie in vigilanza, alzò la mano e benedisse. Poche settimane dopo, molti detenuti sarebbero saliti sui tetti, avrebbero incendiato e distrutto. Una rivolta era scoppiata, come altre, forse più violenta.
La città più sensibile si accorse che nel suo cuore viveva una tragedia. "Il vescovo - avrebbe detto Martini - è come un pastore che deve andare in giro a cercare le proprie pecore. Non deve preoccuparsi di quelle che sono tranquille, che non hanno problemi: deve preoccuparsi soprattutto di quelle che sono in sofferenza".
La visita pastorale di una diocesi ha questa ragione: conoscere. Quella di Martini cominciò dal carcere. "Uno dei luoghi a me più cari". Ritornerà varie volte, anche in quello stesso mese di novembre. Marco Garzonio, nel bel libro che ha dedicato all'episcopato di Carlo Maria Martini (pubblicato da Mondadori), ricorda quanto il cardinale ami il tema della "sentinella" biblica, che "lo fa sentire in sintonia con Giuseppe Dossetti".
Dossetti commemorò una decina di anni fa (eravamo nel 1994 al-l'indomani della prima vittoria elettorale di Berlusconi) un altro "milanese", Giuseppe Lazzati, che fu rettore dell'Università Cattolica, evocando proprio la sentinella biblica e quella domanda ripetuta, "Sentinella, quanto resta della notte?", e la risposta, "se volete domandare, domandate,/ viene il mattino, poi anche la notte;/ convertitevi, venite". Dove, spiega Dossetti, non v'è rimpianto, non v'è alcun pensiero rivolto al giorno precedente. La sentinella e chi lo interpella guardano il presente e si preparano al giorno successivo. Il realismo è la loro strada: considerare lo stato delle cose, per preparare il domani. San Vittore: è lì il presente milanese di Martini, appena nominato da papa Wojtyla, tra la coincidenza di un passaggio e l'avvertimento della cronaca. Martini vive la città nella sua interezza, nei suoi conflitti, nelle sue contraddizioni: "Questa benedetta, maledetta città". La città degli uomini e la città delle macchine, delle strade, delle case, del cemento, come scriverà in uno dei suoi interventi per la "Cattedra dei credenti" nel 1995: "(…) vedevo le case venirmi come addosso, una dopo l'altra, e nelle case gli appartamenti, con dentro tanta gente che si indovinava dietro le tendine, dietro le luci delle finestre; e in ogni casa tanti pesi da portare: litigi, frustrazioni, problemi, malattie, morti". Un'umanità anch'essa reclusa tra le mura di una casa o di una fabbrica e tra le difficoltà della vita: "Mi sentivo come aggravato, soffocato da quella moltitudine di caseggiati, di persone, di problemi; e sentivo riaffiorare l'angoscia per i morti dei terrorismo, per tutti gli uccisi dalla criminalità e dalla droga, per i disperati, per tutti quelli che quella notte erano stanchi di vivere ... ".
Il secondo incontro di Martini fu con il lavoro, nella tradizione dei suoi predecessori, Montini e Giovanni Colombo (la sua messa di Natale nel 1975 alla Innocenti di Lambrate, occupata, contro lo smantellamento). A Martini capitò in sorte la città della più profonda trasformazione del dopoguerra, la città operaia che perdeva brano dopo brano le sue fabbriche e soprattutto smarriva la sua cultura, la sua forza, la sua politica e insieme i suoi valori, una città impaurita, che non si era lasciata alle spalle la strage di piazza Fontana, le altre morti, i cupi giorni del terrorismo: se l'uomo è fatto a immagine di Dio, anche il lavoro dell'uomo è fatto a immagine del lavoro di Dio. Di fronte a quella notte, Martini invita a guardare e a esprimere responsabilità. Secondo le facoltà della Chiesa: "per questo è necessario che ai licenziamenti già in atto e ai prossimi che annunciano con amara certezza, si risponda con un movimento corale di solidarietà". Dopo San Vittore, il vescovo di Milano visiterà le fabbriche. Qualche volta troverà persino i cancelli chiusi (alla Gte di Cassina de' Pecchi). Sempre parlerà agli operai e l'ascolteranno credenti e non credenti, come in un primo maggio del 1982 a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, la città rossa e operaia: "non ci estraniamo dalla grande realtà del lavoro, ma intendiamo collocarci al centro di essa come credenti. Fede e carità ci legano al servizio di ogni nostro fratello". Solidarietà e senso dell'uguaglianza dovevano riflettersi nella considerazione cristiana del lavoro. Martini non abbandona questi riferimenti. Si alza ancora e vent'anni dopo ripete, in un altro Primo Maggio: "Siamo preoccupati di una nuova situazione che conduce a modelli di società che non convincono, per il liberismo che aumenta la povertà e mette ai margini le persone meno capaci di reggere le esigenze del mercato".
Il vescovo sa un'altra volta vedere la città nella verità della sua condizione. Non ne vive le illusioni. Sanziona i nuovi costumi, è forte nella denuncia di tangentopoli. Scopre la fine di una "capitale morale" di fronte alla vacua fantasia di una "città da bere" e più ancora quel disegno, quella trama di corruzione e di scandali, di collusioni tra mafia e potere politico, nella mancanza di punti di riferimento e l'esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un'etica conseguente, rimproverandoli, ovviamente, in primo luogo ai cattolici. I quali, in vario modo, reagiranno. Dei corrotti di Tangentopoli, Martini dirà che "la colpa maggiore di questi è di carattere morale, una gravissima lesione del tessuto della società; avere cioè instaurato un processo in cui una certa immoralità era ritenuta quasi necessaria, una parte del processo sociale. Ciò ha comportato il venir meno dell'autorevolezza di alcune istituzioni. Un danno grave perché la società si fonda sulla fiducia". Martini è stato a Milano la sentinella vigile che non illude ma sa, paziente, costruire la speranza del futuro, vicino dunque alle cose della città, ai suoi drammi e alle sue fortune (più le prime che le seconde in questo ventennio di decadenza).Una delle ultime volte fu in Duomo, per benedire i morti di Linate, la sciagura aerea. Davanti alla folla di quel lutto, pianse i morti e richiamò la responsabilità dei vivi. Mi pare che non abbia salutato Berlusconi. Però il cardinale, così prossimo, nel senso del "farsi prossimo" cristiano, alla città, non è stato amato da tutta la città e per giunta da tutti i cattolici. Non gli fu risparmiata la scomunica della fervente cattolica e allora fervente leghista Irene Pivetti, che nel 1992 ne chiese l'allontanamento e promosse addirittura contro di lui una raccolta di firme. L'accusa era: "coinvolgersi sempre più nella politica, anche azzardandosi in frequentazioni a rischio". La fervente Irene Pivetti poi ritrasse. Ma la consulta cattolica dei lumbard lo accuserà di "protestantizzazione" e a Bossi non piacerà mai un vescovo, che interrogato sull'ipotesi di una Padania indipendente, risponderà: "Rimarrei al mio posto, come rimase al suo posto Schuster quando dovette reggere una diocesi separata dal resto d'Italia". Al tempo, insomma, della Repubblica di Salò. Probabilmente il cardinale milanese non sarà piaciuto in questi anni neppure al cattolicissimo figlio di Comunione e Liberazione, Roberto Formigoni. L'intervento sociale della Chiesa di Martini (attraverso ad esempio la Caritas condotta da don Colmegna) non prevede le privatizzazioni sotto il segno della concorrenza (di nuovo quella specie di "liberismo") del governatore lombardo e di tanti altri centro destra cittadini o regionali, persino nazionali. "Nessuno poteva prevedere il modo con cui si sarebbe sviluppato il fenomeno di degrado dei partiti", disse una volta Martini a proposito dei successi elettorali di Berlusconi.

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