Un amplio artículo de Ratzinger en l'Osservatore Romano contra la expresión "Pueblo de Dios" por las connotaciones de democratización que se le han dado y que son incompatibles con la naturaleza jerárquica de la Iglesia
2. Entrevista al Cardenal Ratzinger ADISTA (2001/8) 28-1-2001
Otro largo artículo de Ratzinger en un periódico alemán de gran tirada, contradiciendo expresamente las teorías de Kaspers sobre las iglesias locales con consistencia propia y no sólo como parte de la universal.
3. Entrevista al Cardenal Kaspers ADISTA (2001/16) 26-2-2001:
Kaspers, en una entrevista opina con libertad sobre la Declaración "Dominus Iesus" sobre la Iglesia, que ha oublicado la Congregación de Ratzinger y sobre otras cosas: la beatificación de Pío IX, la relación con las otras iglesias cristiana
4. Artículo del Cardenal Kaspers ADISTA (2001/44) 11-6-2001
30276. ROMA-ADISTA. Una difesa a spada tratta dell’operato della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) sotto la sua guida; e un attacco frontale al modo "aperto" con cui molti teologi, in particolare quelli della liberazione, interpretano passaggi-chiave del Vaticano II, per dare invece del Concilio una lettura "restrittiva" che sperabilmente sia raccolta dal prossimo conclave. Così, forse, gli uni per applaudirlo, gli altri per criticarlo, molti interpreteranno la relazione che il cardinale Joseph Ratzinger ha svolto il 27 febbraio al "Convegno di studio sull’attuazione del Concilio ecumenico Vaticano II" (v. notizia precedente).
Del complesso ed articolato discorso ratzingeriano, intitolato Lumen gentium. L’ecclesiologia di comunione (v. testo integrale ne L’Osservatore romano del 4 marzo - se qualche lettore lo richiederà ad Adista, invieremo fotocopia del tutto) riportiamo qui solo alcuni passaggi. Il Vaticano II, sostiene il cardinale, voleva prima di tutto puntare il discorso su Dio, ma, purtroppo, "la ricezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche".
Così, esemplifica il porporato, "il concetto di popolo di Dio, compreso assai presto totalmente a partire dall’uso linguistico politico generale della parola popolo, nell’ambito della teologia della liberazione fu compreso con l’uso della parola marxista di popolo come contrapposizione alle classi dominanti nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa… Lentamente questo ‘fuoco d’artificio di parole’ (N. Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio si è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché questi giochi di potere si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei Consigli parrocchiali, dall’altra, però, anche perché un solido lavoro teologico ha mostrato in modo incontrovertibile l’insostenibilità di tali politicizzazioni".
Ratzinger fa quindi un lungo esame del numero 8 della costituzione conciliare sulla Chiesa Lumen gentium (Lg), laddove essa afferma che la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica "sussiste" (nel testo latino: subsistit in) nella Chiesa cattolica guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui. Affermando lo stesso concetto, Pio XII nell’enciclica Mystici corporis (1947) aveva affermato che la Chiesa una, santa… "è" (est) la Chiesa cattolica. Proprio il fatto che il Vaticano II, e certo non casualmente, usò subsistit in e non l’est di papa Pacelli, nel post-Concilio ha attirato l’attenzione del mondo teologico cattolico e non, e molti vi videro un importantissimo cambiamento. Allora, afferma Ratzinger, "la Cdf si vide costretta nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo (il n. 8 della Lg) a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l’autore sosteneva la tesi, secondo cui l’unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Chiesa cattolico-romana così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Cdf fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte".
La constatazione del poco ascolto prestato al suo intervento non impedisce a Ratzinger di notare: "Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella ricezione dell’ecclesiologia conciliare, la questione dell’interpretazione del subsistit è inevitabile, ed al riguardo l’unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione (del 1985) non può essere trascurato". Ma le tesi di Boff - teologo brasiliano della liberazione che proprio il cardinale "processò" a Roma nell’84 e punì nell’85 - sono forse cose ormai del passato? No, dice il porporato:" A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si tratta qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale… La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il ‘Gesù storico’ di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l’avrebbe fondata. La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la resurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili necessità sociologiche dell’istituzionalizzazione".
Riassunto così da lui il pensiero dei teologi che intende confutare, Ratzinger dice la sua tesi, facendola passare di fatto come l’unica interpretazione valida del passo contestato: "Il Vaticano II con la formula del subsistit - conformemente alla tradizione cattolica - voleva… dire esattamente il contrario del relativismo ecclesiologico: la Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l’ha voluta, e lo Spirito Santo la crea continuamente a partire dalla Pentecoste pur di fronte ad ogni fallimento umano e la sostiene nella sua identità essenziale. L’istituzione non è una inevitabile, ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo nucleo essenziale alla concretezza dell’incarnazione… Nella differenza tra subsistit ed est si nasconde tutto quanto il problema ecumenico".
Per i teologi che lui critica (altro problema è se il "riassunto" che fa Ratzinger del loro pensiero sia del tutto corretto) "la divisione dei cristiani perde il suo aspetto doloroso ed in realtà non è una frattura, ma solo il manifestarsi delle molteplici variazioni di un unico tema… Una necessità intrinseca per la ricerca dell’unità in realtà allora non esiste, perché in verità comunque l’unica Chiesa è ovunque e da nessuna parte". Ma, sostiene il prefetto scelto 19 anni fa da papa Wojtyla a guidare la Cdf, "la visione del Concilio è tutt’altra: che nella Chiesa cattolica sia presente il subsistit dell’unico soggetto Chiesa, non è affatto merito dei cattolici, ma solo opera di Dio, che egli fa perdurare malgrado il continuo demerito dei soggetti umani. Essi non possono gloriarsene, ma solo ammirare la fedeltà di Dio vergognandosi dei loro propri peccati e allo stesso tempo pieni di gratitudine… Mentre la divisione (delle comunità cristiane) come realtà storica è percepibile ad ognuno, la sussistenza dell’unica Chiesa nella figura concreta della Chiesa cattolica si può percepire come tale solo nella fede".
Dunque, essendone del resto lo "sponsor" principale, Ratzinger riprende nel suo discorso il ritornello continuamente ripetuto (ma respinto da molti teologi) nel documento sul "mea culpa" preparato dalla Commissione teologica internazionale presieduta dallo stesso cardinale, e presentato ufficialmente il 7 marzo: e cioè, la distinzione tra "Chiesa" e "figli della Chiesa". A peccare sarebbero solo i secondi, mai la prima. Per cui, nota Ratzinger, seppure nella "comunione" ecclesiale, e sulla "assegnazione delle responsabilità… vi saranno sempre squilibri che esigono correzioni"; e, ancora, seppure "può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato", tali questioni "non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve primariamente parlare di sé, ma di Dio". Di qui la conclusione del cardinale, che arriva come un’ultima strigliata (rivolta a chi?): "La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia ‘santità’: per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno di diritti di precedenza, sull’occupazione dei primi posti".
Infine, Ratzinger ribadisce il concetto di "comunione" spiegato dalla Cdf in una lettera del 1992 ai vescovi :"Poiché oggi per i teologi che tengono alla propria rinomazione, sembra essere diventato un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Cdf, su questo testo cadde una gragnuola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi". Nel testo citato, Ratzinger faceva una distinzione tra "Chiesa universale" e "Chiese particolari" che non piacque a molti teologi. Tra questi, Walter Kasper, al tempo vescovo di Rottenburg. Secondo il cardinale, il teologo non comprese bene il senso della distinzione contestata. Ma se si tiene conto che, adesso, Kasper è segretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, la messa in guardia di Ratzinger assume uno speciale significato "ecumenico".
2.
Entrevista al Cardenal Ratzinger
DOC-1046. FRANCOFORTE-ADISTA. Nella storia della recezione del Concilio Vaticano II, si è verificato un indebolimento ma anche una falsificazione del concetto di Chiesa, tanto da trasformare espressioni come "popolo di Dio" o "comunione" in slogan o luoghi comuni. Così si esprime il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card. Joseph Ratzinger in un lungo articolo pubblicato il 22 dicembre scorso sul noto quotidiano tedesco "Frankfurter Allgemeine Zeitung", intitolato "La grande idea divina di Chiesa non è un'illusione". L'articolo, che ha tra l'altro come obiettivo polemico le tesi del teologo e neo-cardinale Walter Kasper, prossimo presidente del Consiglio per l'Unità dei Cristiani, critico sul centralismo romano, ma anche quelle del teologo della liberazione Leonardo Boff, sostiene la tesi della priorità ontologica della Chiesa universale rispetto alle Chiese locali, imputando ad un errato "orizzontalismo" la tendenza a dare a queste ultime un'eccessiva autonomia dal punto di vista teologico. Di seguito, l'articolo integrale di Ratzinger in una nostra traduzione dal tedesco.
Quale concetto di Chiesa troviamo nella recezione del Concilio Vaticano II, in particolare della Costituzione "Lumen Gentium"? Si può dire che dal Sinodo particolare del 1985 ha cominciato a dominare il tentativo di racchiudere la globalità dell'ecclesiologia conciliare in un concetto di base: nella parola dell'ecclesiologia di comunione. Personalmente ho salutato con favore questa nuova centralità dell'ecclesiologia e, anche in conformità ad essa, ho cercato di elaborare le mie decisioni. Tuttavia, bisogna ammettere che la parola communio non occupa un posto centrale nel Concilio. Ciò nonostante, essa può, correttamente intesa, servire come sintesi per l'ecclesiologia conciliare.
Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di comunione si trovano nella frase significativa di 1 Gv 1,3, che bisogna considerare come metro di misura per ogni corretta comprensione cristiana della comunione: "Ciò che abbiamo visto e ascoltato lo annunciamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta".
Qui viene alla luce il punto centrale della communio: l'incontro con il Figlio di Dio incarnato, Gesù Cristo, che nell'annuncio della Chiesa viene agli uomini. Di qui la comunione degli uomini tra loro, che da parte sua poggia sulla comunione con il Dio uno e trino. La comunione viene trasmessa attraverso la comunione con Cristo, la comunione si realizza con lui stesso, e così con il Padre nello Spirito Santo, perciò unisce tra loro le persone.
La parola communio deriva da questa centralità biblica un carattere teologico, cristologico, escatologico e ecclesiologico. Essa ha in sé anche la dimensione sacramentale che appare chiaramente in Paolo: "Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" (1 Cor 10-16). L'ecclesiologia di comunione è di per sé un'ecclesiologia eucaristica. Essa è prossima all'ecclesiologia eucaristica che i teologi ortodossi del nostro secolo hanno sviluppato in modo significativo. In essa, l'ecclesiologia diventa qualcosa di assolutamente concreto, ma resta tuttavia assolutamente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell'Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino, nel dono sempre nuovo di sé, edifica la Chiesa come suo corpo e ci unisce per mezzo del suo corpo risorto al Dio uno e trino e tra di noi. L'Eucaristia avviene in un luogo specifico e tuttavia è sempre universale perché esiste un unico Cristo e solo un corpo di Cristo. L'Eucaristia comprende il ministero sacerdotale della rappresentazione di Cristo e quindi la rete del servizio, la reciprocità di unità e molteplicità a cui la parola communio allude. Così si può dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica che collega la parola della Chiesa alla parola di Dio e alla vita che viene da Dio e con Dio, una sintesi che raccoglie tutte le intenzioni più importanti dell'ecclesiologia del Vaticano II e le investe nel modo giusto una dopo l'altra. Per tutti questi motivi, sono stato grato e contento quando il sinodo del 1985 ha posto al centro il concetto di communio. Ma gli anni seguenti hanno dimostrato che nessuna parola è scevra da fraintendimenti, nemmeno la migliore e la più profonda. Nella misura in cui communio è diventato un luogo comune abusato, è caduto nella piattezza ed è stato falsificato. Come con il concetto di popolo di Dio, anche qui si è dovuta osservare una progressiva orizzontalizzazione, l'omissione del concetto di Dio. L'ecclesiologia di comunione ha cominciato a ridursi alla tematica del rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale, che sempre più si è limitata alla questione della suddivisione di competenze tra l'una e l'altra.
Questo non vuol dire che nella Chiesa non debba essere seguita anche la disputa sul giusto ordinamento e sulla divisione delle responsabilità. E indubbiamente sono sempre esistite alterazioni dell'equilibrio che richiedono correzioni. Ovviamente ci può essere uno straripante centralismo romano che, come tale, deve essere riconosciuto e risolto. Ma tali questioni non devono sviare dal compito proprio della Chiesa: la Chiesa non deve parlare in primo luogo di sé, ma di Dio, e questo può avvenire se ci sono, all'interno della Chiesa, anche critiche in cui fa da guida l'equilibrio tra il discorso su Dio e il discorso sul servizio comune. Non a caso, in definitiva, in diversi contesti nella tradizione evangelica torna la parola di Gesù secondo cui gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi, come uno specchio, che riguarda sempre tutti.
Di fronte al ridimensionamento del concetto di communio verificatosi negli anni successivi al 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto opportuno elaborare una "Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione", che è stata pubblicata il 28 giugno 1992. Poiché oggi, per coloro che si considerano teologi, sembra essere diventato un dovere quello di valutare negativamente i documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo si è abbattuto una gragnola di critiche che non ha salvato quasi nulla. La frase più criticata è stata quella secondo cui la Chiesa universale è, nel suo mistero fondamentale, una realtà che precede ontologicamente e temporalmente le singole Chiese locali. Questo è stato brevemente motivato nel testo con il fatto che l'una e sola Chiesa secondo i Padri precede la creazione, e dà alla luce, le Chiese particolari.
I Padri proseguono in questo modo la teologia rabbinica, che aveva concepito la Torah e Israele come preesistenti. La creazione sarebbe concepita, in base a ciò, come spazio per la volontà di Dio; ma questa volontà ha bisogno di un popolo che viva per la volontà di Dio e lo renda luce del mondo. Poiché i Padri erano convinti della definitiva identità tra Chiesa e Israele, potevano vedere nella Chiesa non qualcosa che si è sviluppato in un momento successivo, bensì riconoscevano, in questo riunirsi del popolo sotto la volontà di Dio, l'intrinseca teleologia della creazione.
Con la cristologia si allarga e si approfondisce l'immagine: la storia viene intesa - nuovamente in connessione con l'Antico Testamento - come storia d'amore tra Dio e l'uomo. Dio trova e crea la sposa del figlio, l'unica sposa che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, secondo cui l'uomo e la donna saranno "due corpi in uno" (Gn 2, 24), l'immagine della sposa si è fusa con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, che ha il suo punto d'appoggio sacramentale nella devozione eucaristica; Cristo e la Chiesa diventano "due corpi in uno" saranno un corpo solo, e così Dio sarà "tutto in tutte le cose". Questa precedenza ontologica della Chiesa universale rispetto all'unica Chiesa e all'unico corpo, all'unica sposa, di fronte alle realizzazioni concrete empiriche nelle singole Chiese locali, mi sembra così evidente che mi è difficile capire le ragioni della critica .
Esse mi sembrano possibili soltanto se non si riesce e non si vuole vedere, forse a causa della disperazione per la pochezza terrena delle Chiese locali, la grande idea divina della Chiesa; essa appare solo come un sogno teologico, e resta soltanto il prodotto empirico delle Chiese nel loro essere l'una con l'altra e l'una verso contro l'altra. Ma questo significa che la Chiesa, come tema teologico, viene appiattita. Se si vuole vedere la Chiesa solo nelle organizzazioni umane, allora resta solo sconforto. E non si è dimenticata soltanto l'ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e l'idea di Israele dell'Antico Testamento.
Nel Nuovo Testamento non bisogna considerare soltanto le deutero-Paoline e l'Apocalisse, per ovviare alla priorità ontologica della Chiesa universale sulle Chiese locali sottolineata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Al centro delle grandi lettere di Paolo, nella lettera ai Galati, l'apostolo ci parla della Gerusalemme celeste, non come di una realtà escatologica, ma come di una realtà che ci precede: "Questa Gerusalemme è la nostra madre" (Gal 4,26). Heinrich Schlier sottolinea a questo proposito che per Paolo, così come per la familiare tradizione giudaica, la Gerusalemme superiore è il nuovo Eone. Ma, per l'apostolo, questo nuovo Eone è già presente "nella Chiesa cristiana. Per lui essa è la Gerusalemme celeste nei suoi figli". Se non si può negare la priorità ontologica della Chiesa, la questione dal punto di vista della precedenza temporale è indubbiamente qualcosa di ancora più difficile. La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita pentecostale della Chiesa dallo Spirito Santo. La questione della storicità di questo racconto non è qui in discussione. Si tratta dell'espressione teologica a cui Luca arriva. La Congregazione per la Dottrina della Fede sottolinea a questo riguardo che la Chiesa inizia nella comunità dei 12 raccolta intorno a Maria, in particolare nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli che porteranno il Vangelo fino ai confini della terra. A mo' di spiegazione si può dire che essi, nel loro essere dodici, sono insieme l'antico e il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio che ora - come è espresso fin dall'inizio nel concetto di popolo di Dio - si estende in tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.
Questa indicazione viene rafforzata da due ulteriori aspetti: la Chiesa, già in quest'ora della sua nascita, parla tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno a ragione considerato questo miracolo della glossolalia come anticipazione della cattolicità: la Chiesa è fin dal primo momento kat'holon, che unisce tutto. A ciò corrisponde il fatto che Luca descrive la schiera degli uditori come pellegrini provenienti da tutta la terra sulla base di una tavola dei dodici popoli il cui senso è quello di rappresentare l'insieme degli appartenenti; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo popolo: i romani, cosa, questa, con cui voleva ancora una volta sottolineare l'idea di Orbis.
Non del tutto correttamente è riportato quanto dice il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede da Walter Kasper quando afferma che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata in realtà Chiesa universale e Chiesa locale in una, e poi prosegue: "Tuttavia questa rappresenta una costruzione lucana; infatti, visto storicamente, ci furono probabilmente diverse comunità, accanto a quella di Gerusalemme anche in Galilea". Per noi qui non si tratta di domande alle quali, in ultima analisi, non si può rispondere (esattamente: quando e dove sono esistite comunità cristiane), bensì dell'inizio della Chiesa in quel tempo, che Luca descrive e riconduce, al di là di tutti i fatti empirici, all'azione dello Spirito Santo. In generale, però, non viene resa giustizia al testo lucano quando si dice che "la comunità originaria di Gerusalemme" sarebbe stata allo stesso tempo universale e locale. La cosa più importante nel racconto di San Luca non è la comunità originaria di Gerusalemme, ma il fatto che nei dodici l'antico Israele, che è uno, si rinnova e che questo unico Israele di Dio ora, attraverso la glossolalia, ancora prima di pervenire all'edificazione di una Chiesa locale di Gerusalemme, si mostra come unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Nei pellegrini che vengono da tutti i popoli, essa fa riferimento subito a tutti i popoli del mondo.
Forse non bisogna sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto illustra chiaramente. Tuttavia rimane importante che la Chiesa all'inizio è nata nei dodici dall'unico Spirito per tutti i popoli e, di conseguenza, fin dal primo istante si è dedicata ad esprimersi in tutte le culture e ad essere così l'unico popolo di Dio; non si tratta di una comunità locale che si estende lentamente, bensì è lievito sempre unito al tutto e porta in sé fin dal primo istante l'universalità.
L'opposizione all'affermazione della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è, dal punto di vista teologico, difficilmente comprensibile, se non del tutto incomprensibile. È chiaro che essa deriva da un sospetto che è sintetizzato in questo modo: "La formula è assolutamente problematica se l'unica Chiesa universale viene identificata formalmente con la Chiesa di Roma, di fatto con il papa e la Curia. Se accade questo, non si può considerare il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede un aiuto alla chiarificazione dell'ecclesiologia di comunione, ma deve essere inteso come una sua liquidazione e come un tentativo di una restaurazione del centralismo romano" (Walter Kasper). In questo testo, l'ipotesi dell'identificazione della Chiesa universale con il papa e con la curia viene innanzitutto presentata come un pericolo; ma in seguito appare attribuita al documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così risulta come un'operazione di restaurazione teologica e quindi come rinnegamento del Concilio Vaticano II. Questo salto nell'interpretazione stupisce, ma senza dubbio costituisce un sospetto ampiamente diffuso; formula un contorno di accuse e manifesta anche una crescente incapacità di immaginare sotto la Chiesa universale, sotto l'una, santa, cattolica Chiesa, qualcosa di concreto. Come unico elemento rappresentativo restano il papa e la curia e, se da un punto di vista teologico li si colloca troppo in alto, necessariamente ci si sente minacciati.
Qui inseriamo una divagazione solo apparente sull'interpretazione del Concilio. La domanda che ora ci poniamo è: qual è la visione della Chiesa universale del Concilio? Non si dovrebbe dire che "l'unica Chiesa universale viene identificata formalmente con la Chiesa di Roma, di fatto con il papa e la Curia". Questa tentazione nasce se in precedenza si è già identificata la Chiesa locale e la Chiesa universale di Gerusalemme, il che significa che l'idea di Chiesa è stata ridotta alle comunità che appaiono concretamente e la sua profondità teologica si perde di vista. Fa bene tornare a questo testo conciliare con questa domanda. Proprio la prima frase della costituzione sulla Chiesa "Lumen gentium" rende chiaro che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma a partire da Cristo: "Cristo è la luce delle genti; questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa". Sullo sfondo riconosciamo l'immagine della teologia dei Padri, che vede nella Chiesa la luna che non brilla di luce propria ma trasmette la luce del sole Cristo. L'ecclesiologia sembra dipendere dalla Cristologia, appartenere ad essa. Perché nessuno può parlare con ragione di Cristo, il Figlio, senza parlare anche del Padre e perché non si può parlare correttamente del Padre e del Figlio senza prestare ascolto allo Spirito Santo, e con questo la visione cristologica della Chiesa necessariamente si amplia in una ecclesiologia trinitaria (nn. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa apertura trinitaria, che ci offre la chiave per una giusta lettura dell'intero testo, possiamo apprendere che cos'è l'una, santa Chiesa fuori e dentro tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa "Chiesa universale". Questo si chiarisce ulteriormente se successivamente la dinamica interna della Chiesa viene applicata al regno di Dio.
Alle domande: che cos'è l'unica Chiesa universale, che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dove sussiste? Dove possiamo vederla all'opera?, la costituzione "Lumen Gentium" risponde quando parla dei sacramenti. In primo luogo il battesimo: è un ingresso trinitario, cioè assolutamente teologico, molto più di una socializzazione all'interno della Chiesa locale, come oggi purtroppo viene spesso frainteso. Il battesimo non deriva dalle singole comunità, ma in esse apre a noi la porta di una Chiesa; è la presenza della Chiesa una e soltanto da essa - dalla Gerusalemme celeste, la nuova madre - può derivare.
Nel battesimo la Chiesa universale precede sempre la Chiesa locale e la crea. Per questo la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla comunione può affermare che nella Chiesa non esiste forestiero: ognuno è nella sua casa e non è un semplice ospite. È sempre l'unica Chiesa, l'una e sola. Chi è stato battezzato a Berlino, è a casa propria anche nella Chiesa di Roma o di New York o di Kinshasa o di Bangalore come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non ha bisogno di notificare il cambio di residenza, è la Chiesa una.
Il testo conciliare passa dal battesimo all'eucaristia, in cui Cristo ci dona il suo corpo e ci trasforma nel suo corpo. Questo corpo è uno, è così l'eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inclusione nell'unico Cristo, il farsi uno di tutti coloro che ricevono la comunione nella comunione universale, che unisce cielo e terra, viventi e defunti, passato, presente e futuro e che apre l'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa significa sempre che Cristo entra attraverso le nostre porte chiuse; essa viene sempre da fuori, dall'intero, unico corpo di Cristo e ci segue all'interno di essa. Questo "extra nos" del sacramento si mostra in modo rinnovato nel ministero episcopale e sacerdotale; che per l'Eucaristia ci sia bisogno del sacramento dell'ordine sacerdotale si fonda sul fatto che la comunità non può darsi da sola l'eucaristia; deve riceverla dal Signore tramite la mediazione della Chiesa. La successione episcopale che costituisce il sacerdozio, rivela tanto l'aspetto sincronico quanto quello diacronico del concetto di Chiesa: l'appartenere all'intera storia della fede degli apostoli e lo stare in comunità con tutti coloro che si fanno raccogliere dal signore nel suo corpo.
La costituzione sulla Chiesa ha trattato esplicitamente il ministero episcopale nel terzo capitolo e ha chiarito il suo significato a partire dal concetto base di collegio. Questo concetto, che appare in modo solo marginale nella tradizione, serve a rappresentare l'unità interna del ministero episcopale. Il vescovo non deve essere considerato come singolo, ma come appartenente ad un corpo, ad un collegio, che significa la continuità storica del collegio degli apostoli. Di conseguenza il ministero episcopale proviene dall'unica Chiesa ed entra in essa. Proprio qui diventa visibile che dal punto di vista teologico non esiste alcuna opposizione tra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale la Chiesa una, ed egli edifica la Chiesa una mentre edifica la Chiesa locale e suscita i suoi doni particolari a vantaggio del corpo tutto. Il ministero dei successori di Pietro è un caso particolare di ministero episcopale ed è legato in modo particolare alla responsabilità per l'unità di tutta la Chiesa. Ma questo ministero petrino e la sua responsabilità non potrebbero esistere se non esistesse prima di essi la Chiesa universale. Sarebbe come afferrare il vuoto, e ciò costituirebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la giusta reciprocità tra episcopato e primato dovrebbe essere individuata anche tra fatiche e sofferenze. Ma questa lotta è impostata nel modo giusto solo se viene vista a partire dal primato della missione propria della Chiesa ed è ad essa ordinata, dal compito di portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Il perché della Chiesa è il Vangelo, e per questo tutto deve ruotare su di esso.
Si può definire come relativismo ecclesiologico l'antitesi, il cui rappresentante è diventato all'epoca il teologo della liberazione Leonardo Boff. Essa si giustifica con l'idea che il "Gesù storico" non avrebbe pensato ad una Chiesa, meno che mai l'avrebbe fondata. Il reale modello di Chiesa avrebbe preso piede solo dopo la resurrezione, nel processo di descatologizzazione per le ineluttabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione; e all'inizio non ci sarebbe stata nemmeno una Chiesa universale "cattolica", ma solo diverse Chiese locali con teologie differenti, differenti ministeri e così via.
Nessuna Chiesa istituzionale avrebbe inoltre potuto ritenersi la Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le strutture istituzionali sarebbero quindi frutto di necessità sociologiche e come tali, perciò, tutte strutture umane che con nuove relazioni possono o addirittura dovrebbero cambiare ancora radicalmente. Nella loro qualità teologica le Chiese differiscono solo in modo trascurabile e perciò si può dire che, in tutte o in molte di esse, sussiste l'"unica Chiesa di Cristo", laddove, partendo da un tale presupposto, la questione è con quale diritto si possa parlare di una Chiesa di Cristo.
La tradizione cattolica ha scelto un altro punto di partenza: essa si fida degli evangelisti, crede in loro. Perché è chiaro che Gesù, che ha annunciato il regno di Dio, ha riunito intorno a sé dei giovani per questo fine; che non ha comunicato loro la sua parola solo come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma che nel sacramento della Cena ha donato loro un nuovo unico mezzo attraverso cui tutti coloro che lo riconoscevano diventassero una cosa sola con lui in un modo nuovo - tanto che Paolo poté indicare questa comunità come un "essere un corpo" solo con Cristo, come unità spirituale del corpo. È chiaro, infatti, che la promessa dello Spirito Santo non costituiva un vago annuncio, ma la realtà della Pentecoste; anche il fatto che la Chiesa non sia pensata e fatta da uomini, ma è stata creata dallo Spirito Santo, è e resta opera dello Spirito Santo.
Quindi nella Chiesa coesistono istituzione e Spirito in modo diverso, a differenza di quanto le suddette correnti vogliono farci credere. Infatti l'istituzione non è semplicemente, o a scelta, una struttura da trasformare o da sopprimere, che come tale non avrebbe nulla a che fare con la questione della fede. Perché questa consanguineità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è intangibile, nascosta dietro le molteplici costruzioni umane, ma esiste veramente, come Chiesa in carne ed ossa, che dà prova della propria identità nella confessione, nei sacramenti e nella successione apostolica.
Il Vaticano II ha voluto - fedele alla tradizione cattolica - dire proprio il contrario del "relativismo ecclesiologico": esiste la Chiesa di Gesù Cristo. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea già dalla Pentecoste contro tutti i rifiuti umani e la conserva nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una espressione inevitabile ma teologicamente irrilevante o persino dannosa; essa appartiene, nel suo nucleo essenziale, alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore dà la sua parola: "Le porte dell'Inferno non prevarranno su di essa".
3. Entrevista al
Cardenal Kaspers
ADISTA (2001/16) 26-2-2001:
DOC-1057. VIENNA-ADISTA. Il
documento vaticano "Dominus Iesus", pubblicato lo scorso autunno, non
costituisce un passo indietro nel cammino ecumenico ma sicuramente è scritto
in un linguaggio "infelice ed equivoco" e in un tono "escludente". Lo ha
affermato il 22 gennaio, il giorno dopo essere stato nominato cardinale (v.
Adista n. 9/01), Walter Kasper, segretario del Pontificio Consiglio per
l'Unità dei Cristiani, in un'intervista al settimanale cattolico austriaco
"Die Furche" (n. 5/01), prendendo nuovamente le distanze dal card. Joseph
Ratzinger. Questi, dal canto suo, lo ha attaccato in un articolo sul
quotidiano tedesco "Frankfurter Allgemeine Zeitung" per le posizioni di Kasper
sul centralismo romano (v. Adista n. 8/01). Kasper sarà prossimamente
nominato, com'egli stesso conferma, presidente del Pontificio Consiglio,
andando così a sostituire il card. Edward I. Cassidy.
Kasper, 67 anni, è stato, all'Università di Tübingen, assistente del teologo
Hans Küng, poi docente di teologia dogmatica. Dal 1989 è stato vescovo
di Rottenburg-Stoccarda, e l'anno scorso è stato chiamato in Vaticano. Tra i
più noti teologi di lingua tedesca, Kasper si esprime in questa intervista sul
futuro dell'ecumenismo ed esprime una critica pungente sul documento "Dominus
Iesus"; ne pubblichiamo il testo in una nostra traduzione dal tedesco.
Il documento romano "Dominus Iesus" ha provocato scalpore. È stato un passo indietro per l'ecumenismo?
Il documento "Dominus Iesus" innanzi tutto non ha come obiettivo l'ecumene, ma il dialogo interreligioso. La cristologia con Cristo come misura unica e universale: questa è l'affermazione ed è rivolta contro le tendenze relativistiche. Su questo punto il documento rappresenta una tesi ecumenica comune, cioè che Gesù Cristo è l'unico e universale mediatore di salvezza. Questo lo dicono anche i protestanti.
Nel quarto capitolo è stata poi inserita una parte sull'unità e unicità della Chiesa. Qui sono state citate affermazioni essenziali del Vaticano II. Non c'è stato nulla di nuovo. Del resto tutte le Chiese pretendono di essere "la vera Chiesa di Gesù Cristo". E nessuna può prescindere da questa pretesa di verità. Il problema di questo capitolo è piuttosto un problema di linguaggio; è elaborato in tre pagine e mezzo con un linguaggio astratto, dottrinario, in qualche modo escludente: il tono sicuramente non è riuscito bene. Il secondo problema è che i risultati del dialogo ecumenico dal Vaticano II non vengono citati, come ha fatto il papa nella sua enciclica sull'ecumenismo "Ut unum sint" (1995), in cui parla espressamente dei "frutti del dialogo".
Soprattutto ha fatto difficoltà l'affermazione secondo cui le Chiese nate dalla Riforma non sono Chiese in senso proprio. Questo ha ferito gli altri, e ferisce anche me, se i miei amici si sentono feriti. Questa affermazione è deplorevole perché è un'uscita infelice ed è equivoca. Ma con essa si vuol dire, e lo ha spiegato anche il cardinale Ratzinger, che esse hanno un'altra idea di Chiesa rispetto alla nostra. D'altronde questo è indiscusso: queste Chiese non vogliono essere Chiese come quella cattolica, non hanno la successione apostolica nell'episcopato o il ministero petrino che per noi è essenziale. Tuttavia la "Dominus Iesus" non implica alcun cambiamento nella politica ecumenica del Vaticano, ma è una sorta di richiamo di fronte alle tendenze relativistiche: le persone devono fare attenzione, dice, all'insegnamento del Concilio!
Oltre alle critiche alla "Dominus Iesus" ce ne sono state anche alla beatificazione di Pio IX'
Il papa stesso ha detto la cosa definitiva: beatificare non significa analizzare tutti i singoli atti di una persona. È piuttosto valutata la religiosità personale e la santità del soggetto, e non quegli atti che oggi si giudicano diversamente a partire da una prospettiva storica completamente diversa. Ha suscitato irritazione presso i protestanti e gli ortodossi, perché è stato il papa del Vaticano I: sul Vaticano I deve ancora esserci una discussione tra noi e gli altri. Ma non bisogna dimenticare che insieme a Pio IX è stato beatificato anche Giovanni XXIII. Tutto questo si può giudicare in modo diverso. Nessuno è obbligato a invocare o dedicare culto in modo particolare a un beato o a un santo.
Qual è il suo rapporto con Pio IX?
Non ho avuto mai un particolare bisogno di vedere questo papa come un modello per la mia vita cristiana. Il contrario accade con Giovanni XXIII, col suo modo di andare avanti con coraggio, gioia e fiducia in Dio, insieme a tutti gli elementi tradizionali presenti anche in lui.
Nell'arcidiocesi di Salisburgo c'è stata prima di Natale irritazione in ambito ecumenico (il vescovo Eder ha sospeso a divinis e poi reintegrato un parroco che aveva concelebrato con un pastore metodista, ndt). Lei ha con sé un messaggio da Roma?
Non mi immischierò di sicuro nelle questioni austriache. Quello che posso dare come messaggio è che il papa è assolutamente deciso ad andare avanti sulla via dell'ecumenismo, in modo responsabile. Tra l'altro il Vaticano II ha detto che il movimento ecumenico è frutto dell'opera dello Spirito Santo.
Almeno tre viaggi del papa quest'anno avverranno in Paesi con popolazione a maggioranza ortodossa. Lei si trova con una forte responsabilità ecumenica. Attualmente si ha l'impressione che il rapporto con l'Ortodossia segni il passo.
Ci sono
difficoltà con gli ortodossi, ma non solo difficoltà: l'anno scorso ho avuto
incontri molto cordiali a Mosca con il patriarca e i suoi collaboratori, e
anche l'incontro in occasione della festa di Sant'Andrea a Costantinopoli è
stato quanto mai amichevole. Il dialogo, quindi, non segna il passo.
Ci sono difficoltà che si sono manifestate anche all'assemblea della
commissione teologica internazionale tra cattolici e ortodossi nel giugno 2000
a Baltimora. Essa si occupò soprattutto del rapporto con le cosiddette Chiese
uniati. Non eravamo ancora nelle condizioni di risolverlo a Baltimora. Ma
tutti erano unanimemente d'accordo sul fatto di proseguire con il dialogo,
nessuno ha avuto dubbi su questo. Bisogna avere molta pazienza e pensare che
queste Chiese sono state da 50 a 70 anni sotto il regime comunista. Sono
usciti dalle catacombe e hanno compiuto una grande ricostruzione, ma ora si
trovano di fronte ad una situazione completamente cambiata. Lì ci sono sempre
difficoltà. Io non le sopravvaluterei. Non ci siamo divisi in un momento
preciso. La data del 1054 è solo simbolica. Piuttosto ci siamo persi di vista
per secoli. E ora dobbiamo di nuovo vivere insieme.
Ma che cosa intende il papa per ecumene? Si tratta di integrare le altre Chiese in quella cattolica? I documenti più recenti sembrano andare proprio in questa direzione…
La decisione del Vaticano II alla quale il papa si attiene, è assolutamente chiara: noi intendiamo l'ecumene oggi non più nel senso dell'ecumene del ritorno, secondo il quale gli altri devono "convertirsi" e diventare "cattolici". Questo è stato espressamente abbandonato dal Vaticano II. Oggi la si considera come cammino comune: tutti devono convertirsi alla sequela di Cristo, e in Cristo alla fine ci si incontra. Tuttavia partiamo dal fatto che l'essenza del cattolicesimo si ritrova in questa unica Chiesa, ma esso verrà arricchito dalle moltissime cose che impariamo gli uni dagli altri. Il papa stesso, tra l'altro, descrive l'ecumene, nella "Ut unum sint", come uno scambio di doni. Lo trovo molto bello: ogni Chiesa ha le sue ricchezze e doni dello Spirito, ed è questo lo scambio di cui si tratta, non del fatto che noi diventiamo "protestanti" o gli altri diventano "cattolici" nel senso della forma confessionale del cattolicesimo. Bene, noi vorremmo proprio mantenere la successione apostolica e il ministero petrino, perché siamo convinti che è un dono dello Spirito, una ricchezza di cui oggi la Chiesa ha bisogno. In un mondo che si sta globalizzando abbiamo bisogno - detto in forma profana - di un punto di riferimento, di un portavoce del cristianesimo. Gli ortodossi mostrano quanto sia difficile quando non lo si ha. Il ministero petrino ha potenzialità anche a livello ecumenico.
È un obiettivo ecumenico che un giorno i vescovi cattolici impongano le mani sui preti protestanti?
Sicuramente
l'episcopato apostolico è qualcosa che vogliamo conservare nell'unità della
Chiesa. Ci sono già stati passi in questa direzione: le Chiese luterane
nordiche e gli anglicani hanno un accordo con il quale si avvicinano al
cosiddetto episcopato apostolico; qualcosa di analogo esiste nel Nordamerica
tra i luterani e la Chiesa episcopaliana.
È quello che rappresenta l'invito espresso da Giovanni Paolo II nella "Ut Unum
sint", a parlare sul primato del papa e sul suo concreto esercizio. Esistono
prese di posizione da parte degli anglicani o dei presbiteriani degli Usa,
così come una gran quantità di articoli, simposi e libri. Ritengo un passo
rivoluzionario il fatto che il papa dica "Io so che il ministero petrino è
dato da Cristo, ma c'è stato un grande sviluppo e diverse forme nel corso
della storia. E nel futuro potrà darsi una situazione totalmente nuova,
globale. Ed io invito tutti: diciamo come vogliamo farlo".
La sua nomina a cardinale significa che lei presto diventerà presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani?
Così mi è stato detto. Ma i tempi non sono ancora stati stabiliti.
4. Artículo del Cardenal Kaspers
ADISTA (2001/44) 11-6-2001
DOC-1092. MONACO-ADISTA. Chiesa universale/Chiesa locale: un rapporto segnato sempre più da una sorta di "scisma mentale e pratico" alla base del quale vi è la crescente incomprensione - e la conseguente indifferenza - da parte della Chiesa-popolo nei confronti delle direttive della Chiesa universale. Su questo tema si sviluppa una lunga riflessione del card. Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani, pubblicata sul mensile dei gesuiti tedeschi "Stimmen der Zeit" (dicembre 2000), e scritta in risposta "amichevole" alle critiche che a Kasper aveva mosso su tale questione il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel corso di un convegno sull'ecclesiologia del Concilio Vaticano II (v. Adista n. 21/00). In quel contesto, infatti, Ratzinger aveva respinto la critica di Kasper al documento del '92 "Su alcuni aspetti della Chiesa communio", documento che asseriva la precedenza ontologica e temporale della Chiesa universale su quella locale. Di seguito pubblichiamo, in una nostra traduzione dal tedesco, l'articolo di Kasper.
IL RAPPORTO TRA
CHIESA UNIVERSALE E CHIESA LOCALE
UN'AMICHEVOLE RISPOSTA ALLA CRITICA DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
card. Walter Kasper
Il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale è at-tualmente oggetto di discussione in diversi contesti. Nel volume pubblicato in onore del vescovo Joseph Homeyer mi sono espresso sull'argomento nel contesto di un ampio articolo dedicato al ministero episcopale (1). Il cardinale Ratzinger ha criticato le mie argomentazioni durante una conferenza importante e piuttosto tesa sull'ecclesiologia del Concilio Vaticano II (2). Le questioni sollevate sono abbastanza importanti da esigere di venire ulteriormente approfondite.
Un urgente
problema pastorale
Le
mie affermazioni sono scaturite fondamentalmente da un'esperienza pastorale
piuttosto che da un'intenzione sistematica. Poiché come vescovo di una grande
diocesi ho fatto spesso l'esperienza di una divaricazione sempre maggiore tra
le norme della Chiesa universale e la prassi messa in atto nella situazione
locale. In alcuni casi si potrebbe quasi parlare di uno scisma mentale e
pratico. Molti fedeli e molti preti non riescono più a capire alcune direttive
della Chiesa universale e non ne tengono conto. Ciò riguarda questioni etiche
come questioni relative alla prassi sacramentale ed ecumenica, per esempio
l'ammissione dei divorziati risposati alla comunione o la pratica
dell'ospitalità eucaristica nei confronti di fedeli di altre confessioni
cristiane.
Un vescovo non può stare a guardare questa situazione senza far nulla. Ma egli
si trova in una situazione difficile. In quanto vescovo ha il ministero
dell'unità (3). Da una parte come membro dell'episcopato porta la
responsabilità della Chiesa universale e si trova in solidarietà con il papa e
gli altri vescovi. D'altra parte come pastore della sua Chiesa locale si trova
in solidarietà con il suo clero e con le domande, le aspettative e le esigenze
dei fedeli ad esso affidati. Il Vaticano II obbliga il vescovo ad ascoltare il
suo clero e i fedeli (4).
Ma come fa un vescovo a conciliare questi due aspetti, se le posizioni
divergono totalmente così come spesso accade oggi? Un duro "energico
intervento", come di tanto in tanto accade, spesso non porta a niente o magari
sortisce l'effetto contrario. Una soluzione è possibile solo se
nell'applicazione delle norme della Chiesa universale il vescovo possiede un
responsabile spazio di azione. Questo non ha niente a che fare con un
opportunistico adeguamento. Va da sè che in questioni di fede non ci può
essere nessun compromesso, e va da sè che ci si può aspettare da un vescovo
che egli si comporti da testimone della verità "in occasione opportuna e non
opportuna" (2 Tm 4, 2). Ma accanto alle dottrine immutabili della fede e della
morale c'è un vasto campo di disciplina ecclesiastica, che certamente si trova
in collegamento più o meno stretto con le verità di fede, ma che è
fondamentalmente soggetto a cambiamenti. Negli ultimi decenni i fedeli sono
stati testimoni di numerosi di questi cambiamenti, che fino a mezzo secolo fa
quasi nessuno avrebbe ritenuto possibili.
La tradizione della Chiesa ha sviluppato una serie di principi e regole per
facilitare una applicazione responsabile e flessibile di norme generali a
situazioni concrete. Essa parla della virtù cardinale della saggezza, della
virtù della discrezione come "superiore giustizia", dell'equità canonica,
della possibilità della dispensa e di un diritto di obiezione del vescovo con
effetto sospensivo; la tradizione della Chiesa orientale conosce il principio
dell'economia, cioè di un'applicazione della legge, al singolo caso, che sia
intelligente, adeguata alla situazione, saggia e soprattutto misericordiosa.
Dal punto di vista ecclesiologico, dietro l'affermazione di questi principi
sta la dottrina secondo la quale una Chiesa locale non è una provincia o un
dipartimento della Chiesa universale; essa è piuttosto Chiesa in quel luogo
(5). Il vescovo non è un delegato del papa, bensì un incaricato di Gesù
Cristo; egli possiede una responsabilità propria fondata sacramentalmente (potestas
propria, ordinaria et immediata) (6). Egli deve avere tutte le deleghe di
cui ha bisogno per la conduzione della sua diocesi (7). Tutto questo è chiaro
insegnamento dell'ultimo Concilio.
Certo dopo il Concilio si sono nuovamente affermate tendenze centralistiche.
Sarebbe ingiusto presumere dietro ad esse solo una curiale volontà di potere.
Dietro ad esse c'è anche la giustificata preoccupazione per la situazione di
alcune Chiese particolari dove talvolta è presente una esaltazione del
pluralismo e delle specificità delle Chiese locali, che porta i segni
ideologici di un nazionalismo ecclesiastico; ci si dimentica che nel Nuovo
Testamento l'accento è posto sull'unità. Dietro la tendenza all'unificazione
c'è poi il fatto che in un mondo globalizzato, che per certi aspetti è
divenuto un "global village", isolate soluzioni delle Chiese particolari sono
divenute più difficili. Le moderne possibilità di comunicazione hanno
essenzialmente facilitato la presa di contatto con la "centrale". E infine
dietro la tendenza alla centralizzazione sta di tanto in tanto anche la
tentazione di far cadere comodamente la propria responsabilità su "Roma" e di
nascondersi dietro questo paravento.
Queste ed altre evoluzioni hanno portato a far sì che il rapporto tra Chiesa
universale e Chiesa particolare si sia squilibrato. Questa non è solo la mia
esperienza, bensì l'esperienza e la lamentela di molti vescovi un po' dovunque
nel mondo (8). Il cardinale Ratzinger purtroppo non ha raccolto queste
esigenze ed esperienze pastorali. Egli ha affrontato il problema dal punto di
vista teoretico e sistematico e ha difeso una frase del documento della
Congregazione della Fede "Su alcuni aspetti della Chiesa come communio"
(1992), da me criticata. La frase, criticata da più parti, asserisce che la
Chiesa universale è "nello specifico del suo mistero una realtà che si pone
ontologicamente e temporalmente prima di ogni Chiesa particolare" (9). Alla
mia presa di posizione egli ha obiettato che essa porterebbe alla situazione
che ci sarebbero solo comunità intese come grandezze empiriche e il profondo
significato teologico della Chiesa andrebbe perduto.
Questa è una grave incomprensione e una caricatura della mia posizione. Nel
saggio criticato, come in molte altre pubblicazioni, si può leggere l'esatto
contrario (10). La riduzione sociologica della Chiesa a singole comunità è
proprio la posizione contro cui io, da vescovo, ho combattuto per dieci anni e
per cui ho incassato aspre critiche.
Pertanto desidero presentare la mia visione delle cose ancora una volta, e
questa volta in modo approfondito. Il problema è importante per la pastorale e
- come si mostrerà di seguito - per l'ecumenismo.
Prospettive
storiche
Il
rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale non si può spiegare in modo
puramente astratto e deduttivo. La Chiesa è una realtà storica; ciò che essa è
si manifesta nella sua storia guidata dallo Spirito di Dio. Pertanto ogni
risposta ad una nostra domanda deve tener conto della concreta storia della
Chiesa. La base storica naturalmente è complessa. Qui dovranno bastare solo un
paio di accenni.
Se si guarda al fondamento biblico, si riscontra che in Paolo "la Chiesa
locale è al centro dell'attenzione" (11). Nelle principali lettere paoline
"ecclesia" significa innanzitutto Chiesa singola, quindi comunità singola; per
questo Paolo può parlare al plurale di "ecclesie locali". Per lui in ogni
comunità locale viene rappresentata la Chiesa di Dio. Pertanto Paolo parla,
per esempio, della Chiesa di Dio che esiste a Corinto (1 Cor 1, 2; 2 Cor 1, 1;
cfr. Rm 16, 1). La Chiesa di Dio è quindi di volta in volta presente nella
Chiesa locale. Nelle lettere dalla prigionia, che oggi per lo più vengono
indicate come deuteropaoline, questo significato della Chiesa locale scompare
quasi completamente; la lettera agli Efesini e quella ai Colossesi convergono
nel fatto che "di volta in volta è presa in considerazione la Chiesa nella sua
interezza e nella sua universalità, non la comunità locale" (12). In Luca
"ecclesia" può stare a significare tanto la comunità domestica quanto la
comunità locale; inoltre è già presente in lui una "concezione ecclesiologica
generale" (13).
La Chiesa originaria deriva dalle Chiese locali guidate dai vescovi, nelle
quali è presente l'unica Chiesa di Dio (14). Poiché nelle singole Chiese è
presente l'unica Chiesa, le singole Chiese stanno tra loro in "communio" (15).
Questa communio risulta evidente soprattutto durante l'ordinazio-ne di un
vescovo da parte di almeno tre vescovi (16), così come nei sinodi, nei quali
si riuniscono i vescovi delle diocesi confinanti già a partire dal III secolo.
Nella serie dei canoni del concilio di Nicea (325) le singole Chiese locali
vengono ordinate con i loro vescovi nelle rispettive province e queste nei
patriarcati (17). Un quadro simile si presenta al sinodo di Sardica (ca. 343)
(18), che già formula un ordine procedurale in osservanza - come diremmo oggi
- del principio di sussidiarietà. Pur tenendo conto del significato
particolare assegnato alla Chiesa locale, non c'era un'autonomia della Chiesa
locale, ogni singola Chiesa era piuttosto legata ad una rete di comunione
composta da metroplìe, patriarcati e infine dalla Chiesa universale.
All'interno di questa rete di comunione, Roma ha rivendicato ben presto per sè
un'autorità e una responsabilità per la Chiesa universale. Già Ignazio di
Antiochia ascrive ad essa "il primato nell'amore" (19). Con ciò non viene
ancora affermato nessun primato dottrinale e giurisdizionale, ma comunque che
"la Chiesa romana, in ciò che determina l'essenza del cristianesimo, è
l'autorità dirigente e determinante" (20). L'autorità di Roma come prima tra
le sedi vescovili era incontestata. Ciò viene espresso chiaramente nel canone
3 del Concilio di Constantinopoli (381) (21) e nel canone 28 del Concilio di
Calcedonia (451) (22). Al vescovo di Roma viene qui riconosciuta una
determinante autorità morale, un riguardo che, certo, per l'est non comportava
nessuna giurisdizione, ma era comunque ben più di un primato onorifico.
Pertanto, con l'ecclesiologia del I millennio un'impostazione univocamente a
favore della Chiesa locale è tanto poco conciliabile quanto quella
univocamente a favore della Chiesa universale.
Questa situazione storica, qui molto brevemente accennata, è di fondamentale
importanza teologica. Perché la Chiesa del I millennio, con il suo patrimonio
comune a tutte le Chiese, possiede un significato determinante. È stato Joseph
Ratzinger a formulare nella sua conferenza a Graz del 1976 la tesi che "non
può essere impossibile oggi per i cristiani ciò che è stato possibile per un
millennio.... Altrimenti espresso: Roma deve esigere dall'Est per ciò che
riguarda la dottrina del primato non più di ciò che anche nel primo millennio
venne stabilito e vissuto" (23). Questa "formula di Ratzinger" ha avuto ampia
risonanza e recezione ed è diventata fondamentale per il dialogo ecumenico.
Questa formula è significativa, perché nel secondo millennio, dopo la
divisione dall'Est, nell'Ovest si è formata una concezione universalistica
della Chiesa, che infine ha portato alla convinzione che ogni autorità nella
Chiesa sia da derivare da quella del papa (24). Nonostante tutto, però, una
tale concezione papalistica rimase estranea ad un teologo del rango di Tommaso
d'Aquino (25), in opposizione con Bonaventura (26). Essa, però, si affermò in
contrasto con il conciliarismo, con la Riforma, con il moderno assolutismo
statale, col gallicanesimo e col giuseppinismo. Il Concilio Vaticano I
(1869/70) con la dottrina del primato giurisdizionale del Papa e il Codex
Iuris Canonici (CIC) del 1917 sembrarono porre il sigillo definitivo a
questa evoluzione.
Il Concilio Vaticano II cercò di valorizzare la concezione veteroecclesiastica
e di conciliarla con il Concilio Vaticano I. Questo è avvenuto attraverso la
dottrina della Chiesa locale, della sacramentalità della consacrazione
episcopale e della collegialità dell'episcopato. L'ecclesio-logia
postconciliare della "communio" ha cercato di pro-lungare le linee indicate
attraverso il Concilio. Il sinodo straordinario dei vescovi del 1985 ha
ripreso questa discus-sione e ha affermato che la "communio" costituisce
l'idea centrale e fondamentale del Concilio Vaticano II (27). Essa si è
dimostrata poi sul piano ecumenico oltremodo fruttuosa. "Communio" è divenuto
un concetto-guida della finalità ecumenica (28).
Lo scritto della Congregazione per la Dottrina della Fede "Su alcuni aspetti
della Chiesa come communio" accoglie questa discussione in un modo
fondamentalmente positivo. Esso critica - e giustamente - un'ecclesiologia che
prende le mosse esclusivamente dalla Chiesa locale e che porta ad intendere la
Chiesa universale come il risultato di un'associazione delle Chiese locali.
Chiesa locale e Chiesa universale si compenetrano reciprocamente. Pertanto la
Congregazione completa l'affermazione conciliare secondo cui la Chiesa
universale sussiste "in e in virtù delle" Chiese locali con la tesi che le
Chiese locali sussistono "in e in virtù della" Chiesa universale. E infine
contro il primato della Chiesa locale, sostenuto da alcuni, afferma il primato
storico e ontologico della Chiesa universale.
Quest'ultima tesi crea problemi, se si prendono in esame i fondamenti storici.
La critica, che ha sollevato da più parti, ha costituito probabilmente il
motivo per cui un anno dopo la pubblicazione dello scritto si è venuti ad un
chiarimento ufficioso (29).
Comuni
fondamenti ecclesiologici
Prima
di passare alla discussione della tesi sopraddetta, desidero per prima cosa -
per evitare possibilmente altri fraintendimenti - spiegare in quali punti io
concordi pienamente con la posizione del cardinale Ratzinger. La comune
convinzione, alla quale è obbligata ad attenersi ogni teologia cattolica, si
può riassumere in tre punti:
1. Gesù Cristo ha voluto solo un'unica Chiesa. Per questo nel credo facciamo
professione di fede per "una sancta catholica et apostolica ecclesia".
Come riconosciamo un unico Dio e un unico redentore Gesù Cristo, un unico
Spirito e un unico battesimo, così riconosciamo un'unica Chiesa. Questa unità
non è per noi una dimensione soltanto futura, a cui noi aspiriamo
ecumenicamente; essa esiste nel presente, non solo nei frammenti delle Chiese
divise. Essa "sussiste" nella Chiesa cattolica, cioè è in essa storicamente
presente, nonostante tutte le sue debolezze, in virtù della fedeltà di Dio ed
ha in essa il suo luogo concreto (30).
2. L'unica Chiesa di Gesù Cristo esiste "in e in virtù delle" Chiese locali
(31) poiché l'unica Chiesa di Gesù Cristo è presente in ogni Chiesa locale,
specialmente nella celebrazione eucaristica. Ma poiché in ogni Chiesa locale è
presente l'unico signore Gesù Cristo, nessuna Chiesa locale può sussistere
isolatamente per sé, ma solo in comunità con tutte le altre Chiese locali.
Così come la Chiesa universale sussiste "in e in virtù delle" Chiese locali,
così ogni singola Chiesa sussiste "in e in virtù" dell'unica Chiesa di Gesù
Cristo. L'unità della Chiesa è perciò una unità di comunione, che esclude
egoismo e indipendenza nazionale delle Chiese locali. Chiesa locale e Chiesa
universale si implicano vicendevolmente.
3. Come le Chiese locali non sono componenti separate o province della Chiesa
universale, così la Chiesa universale non è la somma o il prodotto
dell'associazione di chiese locali. Chiesa locale e Chiesa universale sono
reciprocamente intime l'una all'altra; esse si compenetrano e sono
"pericoretiche" . La Chiesa non è da paragonare né ad uno Stato federale né ad
uno Stato unitario. Essa possiede una propria struttura costituzionale, che si
sottrae ad ogni considerazione puramente sociologica. La sua unità è in
definitiva un mistero. Essa è configurata secondo il modello originario della
Trinità, dell'unico Dio in tre Persone (32). Unità non significa quindi
uniformità; l'unità della Chiesa non esclude, bensì include la molteplicità.
Con queste tre tesi penso di essere in fondamentale sintonia con "Communionis
notio". Henri de Lubac ha espresso l'essenziale di questo discorso con una
formula pregnante: "Poiché regna reciproca implicazione, sussiste anche una
perfetta correlazione" (33). Lo scritto della Congregazione per la Dottrina
della Fede si discosta quindi dalla tesi di una reciproca implicazione e
correlazione in quanto parla di un primato della Chiesa universale. Se questo
sia possibile dipende dagli argomenti che si fanno valere per una tale tesi.
Essa possiede il valore che portano i suoi argomenti.
Controversia
intorno ad una disputa scolastica
Nella
sua tesi il cardinale Ratzinger difende e spiega la tesi del primato storico e
ontologico della Chiesa universale sulla Chiesa locale sia con un argomento
storico che con un argomento sistematico.
L'affermazione del primato storico della Chiesa universale si fonda, a suo
parere, sulla rappresentazione dell'evento pentecostale negli Atti degli
Apostoli.
"In quel tempo la Chiesa si mostra pubblicamente il giorno di Pentecoste nella
comunità dei centoventi che erano riuniti attorno a Maria e ai dodici
apostoli. Gli apostoli erano i rappresentanti dell'unica Chiesa e i futuri
fondatori delle Chiese locali, portatori di una missione indirizzata al mondo.
Già allora la Chiesa parla tutte le lingue" (34).
Questa argomentazione pone alcune questioni. Molti esegeti sono convinti che
il racconto degli Atti degli Apostoli presenti una costruzione lucana.
Probabilmente anche in Galilea ci sono state sin dall'inizio comunità. Michael
Theobald ha valorizzato inoltre l'ipotesi che per l'evento della Pentecoste
non si abbia in mente la Chiesa universale, bensì la diaspora ebraica che si è
raccolta, e che - come vuole mostrare Luca - nel corso del tempo, sotto la
guida dello Spirito Santo, si allarga fino a diventare la Chiesa composta da
tutti i popoli. Secondo M. Theobald questo intero processo, e non solo la
storia iniziale della prima Pentecoste, deve avere un valore normativo (35).
Evidentemente il cardinale Ratzinger è consapevole della debolezza
dell'argomento storico, poiché egli stesso dice che la dimostrazione storica
sarebbe difficile, ma che infine essa non è tanto importante, quanto piuttosto
l'intimo rapporto di Chiesa universale e locale. Più importante è a tal fine
la questione del primato ontologico.
Cosa si
intende con ciò? Sorprendentemente il cardinale Ratzinger giustifica il
primato ontologico con la tesi della preesistenza della Chiesa. Questa tesi
trova appiglio nel discorso dell'apostolo Paolo sulla Gerusalemme celeste
quale nostra madre (Gal 4, 26) e sulla Gerusalemme celeste, città del Dio
vivente, comunità (ecclesia) dei primogeniti, i cui nomi sono scritti in cielo
(Eb 12, 22 s.). I padri della Chiesa hanno successivamente sviluppato questa
tesi (36). Essa allude ad alcune idee, diffuse nell'antico ebraismo, secondo
le quali la Torah sarebbe esistita nella realtà celeste già prima della
creazione. A questo proposito ci sono alcuni parallelismi anche in altre
religioni, così come nel platonismo (37).
Se si libera la tesi della preesistenza dalla sua formulazione contingente,
allora si deve dire che la Chiesa non è il risultato di casuali circostanze,
evoluzioni e decisioni storiche; essa si fonda, invece, nell'eterna volontà di
salvezza e nell'eterno mistero di salvezza di Dio. Proprio questa idea
esprimono le lettere paoline, quando parlano dell'eterno mistero di salvezza
di Dio, che era nascosto nei tempi antichi, ma che ora si è rivelato nella
Chiesa e attraverso la Chiesa (Ef 1, 3-14; 3, 3-12; Col 1, 26 s.).
Una preesistenza della Chiesa così intesa non si può contestare; essa è
irrinunciabile per la comprensione della Chiesa dal punto di vista teologico.
Ma ci si domanda cosa comporti essa concretamente per la nostra questione
relativa al primato ontologico della Chiesa universale. Infatti, chi dice che
la preesistenza sia da intendere solo per la chiesa universale e non anche per
la Chiesa concreta "in e in virtù delle" Chiese locali? Perché l'unica Chiesa
non può preesistere in quanto Chiesa "in e in virtù delle" Chiese locali? La
tesi della preesistenza della Chiesa non dimostra perciò nulla a favore della
tesi del primato della Chiesa universale. La tesi della preesistenza della
Chiesa può giustificare altrettanto bene la tesi, sostenuta da me e da molti
altri, della simultaneità delle Chiese particolari e della Chiesa universale.
Non solo storicamente, ma anche oggettivamente ci sono molti argomenti a
favore dell'idea che la preesistenza della Chiesa si dovrebbe intendere a
partire dalle Chiese concrete "in e in virtù delle Chiese locali". Niente meno
che H. de Lubac giunge ad affermare: "Una Chiesa universale, che si
premettesse, o che si rappresentasse come esistente in sè, al di fuori di
tutte le singole Chiese, è solo un'astrazione" (38). Poiché - secondo de Lubac
- Dio non ama le astrazioni vuote, ma uomini concreti in carne ed ossa.
L'eterna volontà di salvezza di Dio si è manifestata nell'incarnazione del
Logos e volge la sua attenzione alla Chiesa concreta, presente nella carne del
mondo.
Considerata più da vicino, la controversia sulla questione del primato della
Chiesa universale si rivela essere non tanto una questione di dottrina
ecclesiastica, quanto di orientamento teologico e quindi delle diverse
filosofie prese rispettivamente in considerazione: esse o prendono le mosse
più platonicamente dal primato delle idee e dell'universale, oppure vedono più
aristotelicamente l'universale realizzato nel concreto (39). Il secondo
orientamento di pensiero non ha niente a che fare con una riduzione al dato
empirico. La disputa medioevale tra teologi con un pensiero più platonico e
teologi con un pensiero più aristotelico-tomistico è una disputa scolastica
all'interno della comune fede della Chiesa. Bonaventura e Tommaso d'Aquino,
che in tale questione, come in quella della autorità universale del papa,
percorsero vie diverse, sono entrambi riconosciuti maestri della Chiesa;
entrambi vengono onorati come santi. Perché oggi non dovrebbe essere più
possibile una molteplicità di visioni che era possibile nel Medioevo?
Prospettiva
ecumenica
Le
considerazioni sul rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale hanno
notevoli conseguenze per i problemi pastorali di cui si è detto all'inizio.
Però quello che per me originariamente era un problema pastorale interno alla
Chiesa cattolica, è divenuto nel frattempo anche un'urgente questione
ecumenica. La finalità ecumenica non è certo la costituzione di un'unica
Chiesa uniforme, bensí dell'unica Chiesa nella diversità conciliata. Ciò
significa, seguendo la definizione di Ratzinger, che le Chiese devono rimanere
Chiese e che comunque devono divenire sempre più una Chiesa (40). Il fine del
processo ecumenico è quindi l'unità di comunione delle Chiese, o meglio:
l'unità di comunione della Chiesa (41).
Noi possiamo presentare questa finalità in campo ecumenico in modo credibile
solo se nella nostra propria Chiesa realizziamo in modo esemplare il rapporto
tra Chiesa universale e locale nel senso di una unità nella molteplicità e di
una molteplicità nell'unità. Una visione esclusivamente universalistica,
invece, risveglia dolorosi ricordi e sfiducia; essa ha un effetto scoraggiante
in campo ecumenico. Pertanto per il dialogo con le Chiese ortodosse, come con
quelle evangeliche, e quindi con le diverse comunità di Chiesa è importante
mostrare che una Chiesa particolare (un patriarcato, una Chiesa evangelica
regionale, così come ogni raggruppamento confessionale) può essere Chiesa di
Gesù Cristo in senso pieno solo nella comunità della Chiesa universale, ma
che, d'altra parte, tale unità di comunione non sopprime e non assorbe le
singole Chiese e le loro legittime tradizioni, ma conserva ad esse uno spazio
di legittima libertà, perché solo così può essere concretamente conservata
tutta la pienezza della cattolicità (42).
Un rapporto equilibrato tra Chiesa universale e locale non contraddice il
ministero di Pietro nella Chiesa, ma corrisponde al suo intimo significato. Il
suo compito, infatti, è quello di "confermare i fratelli" (Lc 22, 32). Egli
deve confermare l'episcopato e con esso le Chiese locali e mantenerle
nell'unità (43). Papa Giovanni Paolo II ha invitato ad un fraterno dialogo
ecumenico, precisando come in futuro esso possa verificarsi concretamente
(44). Se il papa stesso invita ad un tale dialogo fraterno, non può essere
allora fuori luogo, se si esprime francamente la propria opinione su una
giusta definizione del rapporto tra Chiesa universale e locale
NOTE
1 Zur Theologie u. Praxis des bischöflichen Amtes, in: Auf eine neue Art Kirche sein (FS J. Homeyer, München 1999), 32-48.
2 L'ecclesiologia della Costituzione "Lumen gentium", in: Il Concilio Vaticano II -- Recezione e attualità alla luce del Giubileo, ed. R. Fisichella (Cinisello Balsamo 2000) 66-81.
3 J. Ratzinger ha trattato in modo convincente il tema del doppio servizio all'unità e del vescovo come elemento di collegamento per l'unità tra il ministero dell'unità presente nella propria chiesa e nella chiesa universale, in: Zur Gemeinschaft berufen. Kirche heute verstehen (Freiburg 1991) 89 s.
4 LG 27, 37; CD 16.
5 LG 26; CD 11.
6 LG 27.
7 CD 8.
8 Ha riscosso particolare attenzione la Oxford Lecture del vescovo John R. Quinn, edita in: The Exercise of the Primac', ed. Ph. Zago e T. W. Tille' (New 'ork 1998). In questa direzione vanno diverse affermazioni dei cardinali König, Martini e altri.
9 Congregazione per la Dottrina della Fede, lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come communio del 2. 5. 1992, 9 (redazione tedesca).
10 Cfr. per esempio il mio intervento "Kirche als communio", in: Theologie u. Kirche (Mainz 1987) 272-289, dove con tutta la buona volontà non si può proprio trovare quella comprensione puramente orizzontale della Chiesa, giustamente criticata dal cardinale Ratzinger.
11 J. Gnilka, Theologie des Neuen Testaments (Freiburg 1994) 110.
12 Ibid. 334.
13 Ibid. 218, 224.
14 Ignazio di Antiochia, An die Epheser, Praescr., in: Die Apostolischen Väter, ed. J. A. Fischer (Darmstadt 1956) 142; come in altri scritti epistolari. Altre testimonianze si trovano in H. de Lubac, Quellen kirchlicher Einheit (Einsiedeln 1974) 49.
15 L. Hertling ha offerto una presentazione di fondamentale importanza dell'ecclesiologia della communio nella chiesa antica: Communio u. Primat - Kirche u. Papsttum in der Antike, in: Una Sancta 17 (1962) 91-125. Questa visione è stata successivamente confermata e sviluppata. Si veda anche J. Ratzinger (A. 3) 70-88. Importanti interventi più vecchi in relazione a questo tema in: Ibid., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie (Düsseldorf 1969).
16 Cfr. canone 4 del Concilio di Nicea, cit. in: Conciliorum oecomenicorum Decreta, ed. J. Alberigo u. a. (Freiburg 1962) 6 s.
17 Cfr. i canoni 4, 6, 8, cit. ibid. 6-9.
18 K. Baus, in: Handbuch der Kirchengeschichte II/1 (Freiburg 1973) 38-42; G. Schwaiger, Päpstlicher Primat u. Autorität der Allgemeinen Konzilien im Spiegel der Geschichte (München 1977) 27
19 Ai Romani, Praescript (A. 14) 183.
20 Su questa interpretazione ibid. 129 s.
21 Conciliorum oecomenicorum Decrata (A. 16) 28.
22 Ibid. 75 s.
23 Si ritrova invariato in: Cardinal Joseph Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 209. Successivamente Ratzinger non è ritornato su questa posizione, ma si è difeso da travisamenti, chiarendo che da ciò non si può derivare il ritorno al primo Millennio e quindi un'ecumene di ritorno: cfr. J. Ratzinger, Kirche, Ökumene, Politik (Einsiedeln 1987) 76 s., 81 s.
24 Cfr. '. Congar, Die Lehre von der Kirche. Von Augustinus bis zum abendländischen Schisma, in: Handb. der Dogmengeschichte, Bd.3, 3c (Freiburg 1971) 57 s., 60s., 63 s. ecc.
25 Cfr. W. Kasper, Steuermann im Sturm. Das Bischofsamt nach Thomas von Aquin, in: ibid., Theologie u. kirche, Bd. 2 (Mainz 1999) 103-127, qui 122 - 124.
26 '. Congar, ibid. 144: "Bonaventura era per il XIII secolo il più importante teorico della monarchia papale".
27 Zukunft aus der Kraft des Konzils. Die außerordentliche Bischofss'node '85. die Dokumente mit einem Kommentar von W. Kasper (Freiburg 1986) 33.
28 W. Thönissen, Gemeinschaft durch Teilhabe an Jesus Christus. Ein katholisches Modell für die Einheit der Kirchen (Freiburg 1996).
29 OR, 23. 6. 1993; ed. in: HerrKorr 47 (1993) 406-411.
30 LG 8. Cfr. a proposito la più recente presa di posizione della Congragazione per la fede "Dominus Jesus. Über die Einzigkeit und die Heilsuniversalität Jesu Christi und der Kirche" del 6. 9. 2000, 16 s.; i problemi sollevati in questa presa di posizione non possono essere trattati in questo contesto.
31 LG 26.
32 LG 4; UR 2.
33 H. de Lubac (A. 14) 50.
34 Scritto della Congregazione, 9.
35 M. Theobald, Der römische Zentralismus u. die Jerusalemer Urgemeinde, in: ThQ 180 (2000) 225-228.
36 Clemente di Roma, Epistula II ad Cor., 14, 2; Pastore di Hermas, Vis. 2, 4. Su Origene cfr. P. - Th. Camelot, Die Lehre der Kirche. Väterzeit bis ausschlißich Augustinus, in: Handb. der Dogmengeschichte, Bd. 3, 3b (Freiburg 1970) 9; su Agostino cfr. '. Congar (A. 24) 6-8.
37 Cfr. Art. Präexistenzvorstellungen, in: LThK;, Bd 8, 491-493.
38 Cfr. H. de Lubac (A. 14) 52 s. De Lubac, che in altro luogo mette espressamente in guardia dai pericoli di una visione sociologica e di un nazionalismo eccessivo e che quindi sotto questo punto di vista è un testimone insospettabile, tuttavia chiarisce che nella nostra questione il fattore socio-culturale è di notevole importanza (cfr. 45 s.).
39 La discussione intorno alla questione se il generale esista "prima", "in" o, sulla base di un procedimento astrattivo, "dopo" il concreto, venne dibattuta nella disputa medioevale degli universali.
40 J. Ratzinger, Die Kirche u. die Kirchen, in: Reformatio 13 (1964) 105.
41 Cfr. W. Kasper, Kircheneinheit u. Kirchengemeinschaft in katholischer Perspektive. Eine Problemskizze, in: Glaube u. Gemeinschaft (FS P. W. Scheele, Würzburg 2000) 100-117.
42 UR 4.
43 DH 3961; LG 27.
44 Ut unum sint 95.